7 gennaio 2016
Più volte abbiamo ripetuto che il mondo dell'acciaio, spina dorsale del manifatturiero e metafora dell'Italia, è arrivato ad un bivio dove esistono solo due opzioni: sviluppo o declino.
E crediamo fortemente, supportati da evidenze empiriche, che l'industria manifatturiera sia il centro pulsante dell'economia, unico motore per una crescita solida, sostenibile e duratura (ogni nuovo posto di lavoro creato nell'industria genera da due a cinque posti di lavoro in altri settori, secondo i dati pubblicati dalla Brooking Institution).
Quindi l'acciaio (e l'ILVA) sono indispensabili alla competitività del sistema manifatturiero italiano.
Ma per cercare di ritrovare il bandolo della matassa nel groviglio che si è creato dobbiamo ripartire da due riflessioni fondamentali.
La prima è che la filiera dell'acciaio sta rispondendo ancora con troppa lentezza ai grandi cambiamenti degli ultimi decenni. Un primo indicatore significativo è rappresentato dalle spese in Ricerca e Sviluppo in percentuale del PIL: a fronte di un 3,5% del Giappone, di un 2,7% degli USA e di una media OCSE del 2,4%, l'Italia investe appena l'1,3%. Ma è la siderurgia, con un modestissimo 0,6%, ad indicare quanto spazio esista ancora per innovazioni di prodotto, di processo e strategiche. È vero che esiste un paradosso tutto italiano che consiste nel fatto che spesso gli investimenti in R&S non compaiono in voci specifiche di bilancio, (tanto che l'Ufficio Studi della Banca d'Italia ha creato il termine di "Innovatori senza ricerca" nel pessimistico quaderno dal titolo "Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi") ma è anche vero che i trasferimenti di conoscenza e di saperi tra le Università/Centri di Ricerca e le imprese siderurgiche sono ancora molto bassi.
La seconda riflessione riguarda il futuro dell'acciaio all'interno delle economie avanzate. In «Industria e acciaio 2030» (studio presentato a maggio 2015 durante Made in Steel) abbiamo delineato i principali trend che caratterizzeranno i prossimi decenni.
Per una politica industriale che si rispetti, ma anche solo per il piano industriale di una qualsiasi azienda (a partire da quello dell'ILVA), dovremmo partire proprio da qui, chiedendoci come vivremo, in quali case, quali mezzi di trasporto utilizzerremo, quali infrastrutture ecc., adeguando quindi quantità e qualità di acciaio ai bisogni ed ai consumi non solo attuali ma anche a quelli che prevediamo possano essere.
Una politica industriale innovativa non come rimedio ai fallimenti del mercato, ma come strumento per favorire e determinare i cambiamenti strutturali - in particolare di natura tecnologica - dei mercati e dei bisogni di cittadini sempre più attenti ad uno sviluppo sostenibile.
Buon 2016!
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