28 maggio 2014
La recente rilevazione ISTAT, sullo sviluppo del PIL italiano in arretramento del 0,1%, ha innestato tante/troppe polemiche tra coloro che artificialmente spingono sull’ottimismo e i realisti. Chi ha ragione? Non si sa, perché in un’approfondita analisi pare che entrambi abbiano torto. Il problema non è se il Paese vada bene o male, ma quali siano le cause della crisi.
Esaminando la vicenda:
a) Com’è noto: il mercato per le imprese s’articola tra interno ed internazionale;
b) Indicativamente in dottrina s’afferma che il 60% del fatturato dovrebbe essere dedicato al mercato domestico e il resto esportato, lasciando ampi spazi agli accomodamenti;
c) la crisi, che si è aperta nel 2008, incide soprattutto sull’importante ridimensionamento della domanda interna;
d) il mercato domestico cala per 2 motivi. Il primo e il più importante è per l’effettiva riduzione della ricchezza degli italiani, causa disoccupazione e un eccessivo carico fiscale. Il secondo dipende dal pessimismo sul futuro che frena la spesa;
e) per lottare contro il pessimismo è stata lanciata un’importante ottimistica campagna di stampa dove ogni rondine fa primavera, senza analizzare l’effettiva realtà che resta preda di alcuni partiti politici, molto aggressivi, che non sanno però andare oltre la denuncia del malessere nazionale;
Quanto qui esposto è oggettivo.
Il soggettivo interviene sulle soluzioni:
a) una cospicua parte della politica (ma non si sa quanto nel Paese reale) pensa che per risolvere la crisi in atto, servano le riforme come l’abolizione del Senato, l’aumento di 80 euro in busta paga a una parte minoritaria degli elettori e rivedere le regole, ma non il costo del lavoro;
b) un altro settore della politica (anch’essa particolarmente vivace) ritiene che smontare lo Stato, più che riformarlo, sia saggio.
In mezzo a queste due visioni ci sono oltre 3 milioni d’italiani disoccupati e sui giovani la percentuale dei senza lavoro è intorno al 43%. In tutta onestà, sentendomi più italiano che della fazione A o di quella B, osservando e studiando quanto pensato e realizzato negli Usa dal febbraio 2012 (200mila nuovi occupati) e ora in corso di sviluppo in Gran Bretagna, la soluzione ruota intorno ai processi di reshoring. Il concetto è noto e riportato in queste colonne molte/troppe volte. Nonostante ciò, in Italia resta sconosciuto.
Cosa significa reshoring:
a) una politica pubblica d’aperta e convinta agevolazione alle imprese manifatturiere, affinché si localizzino sul territorio nazionale con zero costi d’urbanizzazione, forti agevolazioni alla costruzione o affitto di capannoni industriali e abbassamento del costo del lavoro ricevendo ulteriori incentivi come alla ricerca e sviluppo;
b) l’iniziativa dev’essere sia nazionale che soprattutto locale. Addirittura si può pensare al rinvio del pagamento delle tasse o alla loro sospensione per i primi anni, a patto che si assumano persone da una certa soglia in poi. In pratica per 25 operai assunti il Texas o l’amministrazione di Detroit, offre una riduzione o l’azzeramento delle tasse locali;
c) quest’iniziativa è rivolta alle imprese nazionali che avevano precedentemente delocalizzato.
Analisi critica:
Le procedure di reshoring, in realtà, sono già applicate a danno dell’Italia dall’Austria e dalla Slovenia. Inoltre va distinta la motivazione alla delocalizzazione tra:
a) chi produce all’estero per quel mercato straniero che l’accoglie (in questo caso l’iniziativa è lodevole e da premiare, favorendone la sinergia con altre aziende – concetto di distretto industriale situato all’estero e sostenuto dall’Italia)
b) chi produce all’estero per re-importare il prodotto o parte di esso nel nostro paese (che è da scoraggiare con dazi e una tassazione importante al fine di ripagare la Nazione per il danno sociale arrecato in termini di disoccupazione)
L’assordante silenzio della sostanza
Inutile riconoscere che su questi temi nessuno si sia mai misurato nel nostro paese, pur sapendo che l’elemento principale della crisi è il lavoro o meglio la sua assenza. Dalla carenza di stabilità lavorativa, si è entrati in un’era di precarietà, che comporta un ritardato ingresso nel mondo lavorativo per i giovani, loro coabitazione con i genitori, ritardo nei matrimoni, nascita dei figli in età più adulta e quindi meno pazienza e forze da dedicare alle nuove generazioni e infine, ma non ultimo, il dramma del non lavoro per i cinquantenni disoccupati, ancora nel pieno della loro capacità di produrre idee e concetti.
Chi è disposto a metterci la faccia su questi temi che esprimono l’essenza della problematica nazionale?
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