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«Gestire trasmettendo paura al personale dipendente»

Gli studi di Richard Sennett sul clima aziendale e quelli di Kets de Vires sull’organizzazione nevrotica, non avevano considerato l’uso non consapevole della paura per gestire il personale nel passaggio generazionale. Ecco il resoconto di uno studio aziendale realizzato su una media impresa italiana. 

Per assicurare un appagante passaggio generazionale

Due famiglie d’imprenditori, tra loro fratelli, in 30 anni hanno realizzato un’impresa di punta nel panorama italiano, giungendo a impiegare un centinaio di dipendenti per quasi 20 milioni di euro fatturati all’anno. Insieme le due famiglie contano su un importante numero di figli, tutti da coinvolgere nell’azienda nei rispettivi ruoli di dirigenza. Nonostante le giovane età, quelli in attività, in tutto oltre 5, occupano ruoli di alta dirigenza oscillando tra i 20 e i 28 anni (altre 4 unità sono a scuola o a casa). Come conciliare bassa età e incarichi così importanti come la direzione commerciale, del personale, l’ufficio acquisti, i trasporti e la gestione d’imprese collegate? La strategia familiare è quella di costituire delle imprese collegate alla casa madre, al cui vertice porre uno dei figli in funzione di responsabilizzazione e partecipazione, in pratica una holding. Contemporaneamente assumere anche una posizione di management nella casa madre. In effetti con una strategia di questo tipo, tutti i ragazzi e le ragazze sono molto partecipi alla vita d’impresa, pur ricevendo retribuzioni particolarmente modeste. Sicuramente l’obiettivo di un passaggio generazionale partecipato e compreso è stato raggiunto.

La psicologia del ragazzo sotto pressione

Per ragazzo o ragazza viene qui intesa una persona sotto i 30 anni. Sicuramente la moda vorrebbe che fossero considerati uomini e donne, ma è difficile ritenere matura questa fascia d’età, soggetta a una costante e continua evoluzione. Al contrario, la maturità non significa solo stabilità nei comportamenti, ma anche una accesa capacità d’analisi delle problematiche da più punti di vista, considerati contemporaneamente, consentendo la comparazione e la scelta di una direzione da seguire. Al contrario, la giovane età è caratterizzata da una scarsità d’elementi di scelta pur in un regime di decisioni assunte. Entrando nel dettaglio, quanto accaduto nell’azienda studiata, manifesta una tipologia comportamentale nuova; il giovane manager, sotto tensione per i risultati che vuole-deve apportare, manifesta una decisa azione autoritaria verso i sottoposti, aprendo a costanti e continui urti capaci d’offendere o porre in timore le persone. Non è finita. Il giovane offendendo gli altri nell’irruenza della sua decisione, resta a sua volta offeso dal comportamento dei suoi sottoposti, che ricambiano con diffidenza, timore e non sincerità. Si apre così un circuito vizioso dal quale non se ne esce, senza l’intervento esterno di persone molto autorevoli in grado di ricucire un rapporto sfilacciato; è il ruolo dei genitori dei ragazzi o di un consulente esterno.

Il danno aziendale

Un danno d’immagine aziendale e specificatamente sul piano relazionale con il personale, di questo tipo, non è grave perché recuperabile nel corso del tempo: servono solitamente dai 5 ai 10 anni perché si rientri nella normalità. Sicuramente i giovani manager devono assolutamente sfondare i 35 anni d’età con 15 d’esperienza sulle spalle. Al di là del malumore, il vero disagio aziendale può comportare una migrazione, verso altre imprese, per chi si attiva su una nuova vita professionale, al netto della ritrosia e pigrizia nel muoversi in questo senso. Ne consegue che una dinamica di gestione del personale con rigidità e astio non è da considerarsi mortale per l’azienda, anche se ne intacca pesantemente l’immagine.

Quando è possibile considerarsi manager?

Il manager non ha una anagrafica sulla quale contare, ma un percorso che dovrebbe porlo in condizioni di decidere dopo opportuna analisi. Queste attitudini non comportano necessariamente un titolo accademico, ma certamente l’esperienza maturata nell’osservare, analizzare, capire e confrontare per decidere. La necessità in tempo decorso, per acquisire queste attitudini, cambiano da persona a persona, però indicativamente 15 anni sono un lasso temporale adeguato per maturare. Ciò significa che se si dovesse aver terminato l’università a 26-27 anni, la dirigenza è da considerarsi una soglia credibile a 42-45 anni. Per chi è “figlio d’arte”, oppure non ha seguito un percorso formativo universitario, non si abbassa l’età “giusta”  per accedere “alla stanza dei bottoni”, ma resta ugualmente collocata sotto i 50 anni. Perché questo? Serve introdurre una importante differenza tra il lavorare come azione del fare e l’attitudine del cervello a capire di più in un processo di maturazione. Il processo di confronto e selezione per decidere richiede maturazione anziché l’uso della pratica. Quest’ultima si acquisisce operando direttamente nello svolgere azioni concatenate tra loro, oppure anche se applicate su piani e argomenti diversi. La maturazione, al contrario, necessita della riflessione e studio delle condizioni di realizzazione dei fenomeni per analizzarli al fine di poter interagire su essi. Il manager è una figura che sbriga poche pratiche a livello fisico o mentale, ma produce molte idee e punti di vista da perseguire sui mercati e in azienda. In una parola il dirigente “crea pensiero”. Non si tratta di mitizzare una figura dirigenziale aziendale, ma d’assegnarle la sua effettiva responsabilità in un periodo dove molte (troppe) imprese chiudono.

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