16 maggio 2014
Questa volta rovesciamo la “monetina” della comunicazione: al posto dell’imprenditore e della sua azienda scegliamo l’istituzione. Come comunicano lo Stato, il Governo, gli enti locali? In particolare come comunicano con l’impresa?
L’impresa è un soggetto primario del tessuto sociale di un Paese, con il suo ruolo di creazione di valore economico, di strumento di occupazione e di sviluppo del territorio. Una serie di funzioni garantite dalla Costituzione ma non riconosciute di fatto dalle istituzioni pubbliche. Non meraviglia quindi, anche se è amaro constatarlo nuovamente, che alle imprese si rivolgano poco e male quando addirittura non preferiscano il silenzio.
Anche in questo caso si preferisce la strada “doveristica” a quella della condivisione: le imprese, come i cittadini sono “sudditi” obbligati al rispetto dei doveri e molto meno informati sull’esistenza e sul rispetto dei diritti. Pur dando atto delle difficoltà congiunturali e dei vincoli di finanza pubblica, la politica economica vive più di annunci che di fatti concreti, con l’inevitabile risultato di mischiare i pochi interventi con i molti progetti che resteranno chiusi nel cassetto.
Tre esempi indicativi di questa anomalia comunicativa: la pressione sul lavoro, la ragnatela della burocrazia e la fiscalità sugli immobili aziendali. Nelle ripetute discussioni sugli strumenti di politica economica da realizzare per mettere alle spalle la crisi economica tutti i politici e lo stesso Presidente del Consiglio sottolineano la necessità di alleggerire la pressione fiscale sul lavoro, per restituirgli un minimo di competitività rispetto agli altri Paesi europei. Dove sta il problema di comunicazione? Principalmente nel fatto di promettere troppo rispetto a ciò che può essere garantito, un minimo intervento di riduzione dell’Irap. L’insistenza comunicativa con cui si pone l’accento sulla necessità di ridurre le tasse per le imprese rischia di essere controproducente, nella reazione di delusione quando si scoprirà che l’insieme degli oneri fiscali sulle imprese, tra imposte centrali e tributi locali, è destinato ad aumentare anziché diminuire.
Analogamente stiamo assistendo a ripetuti annunci sulla riduzione dei vincoli burocratici che gravano sulle imprese. Anche in questo caso alla forza dei messaggi segue la debolezza delle misure concrete, a dimostrazione di come nel corso degli anni sia stata creata una ragnatela intrecciata di regole e cavilli, di norme e di deroghe, di responsabilità (in capo al cittadino e all’imprenditore) e di inerzia (in capo ad alcune componenti della pubblica amministrazione). In questo caso dove sta l’errore di comunicazione? Nella genericità della “battaglia antiburocrazia” che manca di obiettivi precisi, magari più limitati ma concretamente realizzabili e manca soprattutto del principio della responsabilità per le inadempienze della Pubblica amministrazione di fronte alle richieste delle imprese. E’ preferibile un no tempestivo e motivato a una dilazione dei tempi che equivale a un no silenzioso e immotivato.
Infine la questione della fiscalità sugli immobili aziendali. In questo caso nemmeno si comunica, di fronte a una serie di obblighi e scadenze fatte di Imu, Iuc, Tari, Tares e balzelli vari. L’impresa è lasciata sola, senza nemmeno la comunicazione delle regole stabilite dal singolo ente impositore. Basta fare un giro dei siti dei Comuni per comprendere questo paradosso: malgrado gli obblighi di informazione questi siti vanno a gare per non pubblicare le regole o per nasconderle quando vengono pubblicate. Dove sta l’errore di comunicazione? Nel violare qualsiasi principio di informazione, di trasparenza e di sostenibilità impositiva.
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