20 aprile 2021
Un mondo dell’acciaio spaccato in due: da un lato la Cina, che si sta consolidando con incredibile determinazione (guidata dal governo centrale). L’obiettivo è arrivare a concentrare in soli 10 gruppi il 60% della produzione nazionale di acciaio; manca solo il 10% per centrarlo. Dall’altro lato c’è l’Ue, che ha perso punti nella sua quota sulla produzione mondiale e gruppi nella top 50 dei maggiori produttori globali. Non è stata neppure tra i 4 grandi player che hanno coperto oltre il 50% delle operazioni di M&A nel periodo 1995-2019, e cioè, in ordine temporale per numero di operazioni, USA, Russia, Giappone e Cina.
Nel mezzo c’è l’Italia. Con i suoi punti di forza e di debolezza, che sono stati analizzati e illustrati da Gianfranco Tosini dell’Ufficio Studi siderweb nel corso del webinar “Come nascono i campioni europei dell’acciaio”.
I 16 principali gruppi siderurgici italiani, rispetto ai 26 gruppi degli altri Paesi Ue, «hanno una redditività mediamente più alta e un indice di capitalizzazione migliore» ha spiegato Tosini, con un ROA del 4,5% nel 2019 (contro lo 0,34% della media Ue) e un EBIT del 4,17% (0,34%). «Ma hanno anche un grosso neo: quello della dimensione molto più ridotta rispetto ai competitor europei. È un problema non tanto nell’immediato, perché la dimensione non è decisiva dal punto di vista patrimoniale e reddituale, quanto in prospettiva». Questo è vero, ha però specificato Tosini, «per i gruppi del Nord Italia, dove la produzione di acciaio è totalmente basata sulla tecnologia del forno elettrico, che offre indubbi vantaggi in termini di flessibilità, costi di investimento e impatto ambientale rispetto alla tecnologia a ciclo integrale. Un territorio dove si è costituito un sistema produttivo caratterizzato da forte spinta all’innovazione e capacità di adattamento ai cambiamenti congiunturali e della domanda, che ha favorito il consolidamento di gruppi industriali attivi anche nella trasformazione dell’acciaio, nella sperimentazione e nella ricerca di nuovi materiali e processi tecnologici, nell’impiantistica».
“Supercampioni” nazionali, per la totalità nel Nord Italia, che rischierebbero, però, di essere svantaggiati per l’eccessiva frammentazione. «Siamo di fronte a periodo di sfide e di cambiamento culturale e strutturale – ha analizzato Tosini -. Si va verso la sostenibilità dei processi produttivi, si dovrà investire in compatibilità ambientale e in qualità. Prodotti oggi ancora in fase embrionale diventeranno gli asset portanti nei prossimi anni. Servono investimenti in tecnologia, in digitalizzazione, e quindi grandi risorse, con i capitali che andranno cercati non solo nel sistema bancario, come si fa oggi, ma anche nel sistema finanziario». Senza dimenticare la necessità dell’internazionalizzazione, perché «la crescita futura avverrà in contesti diversi da quelli tradizionali».
E poi ci sono gli “ex campioni” dell’acciaio nazionale: ArcelorMittal Italia (ormai Acciaierie d’Italia), AST Terni e JSW Steel Italia, con indici di redditività nel 2019 negativi o di poco sopra lo zero e il cui «livello di indebitamento è elevato rispetto alle imprese del Nord Italia». Servono quindi, ha concluso Tosini, interventi su più fronti: «Sulla liquidità necessaria per garantire la continuità produttiva; sulla ricapitalizzazione per effettuare gli investimenti per ammodernare gli impianti; sull’innalzamento del livello di qualità dei prodotti e di sostenibilità ambientale dei processi; sulla formazione del capitale umano; sulla ricerca di sinergie con l’ambiente esterno e gli altri operatori della filiera. Il rilancio di questi “ex campioni” è di fondamentale importanza per consolidare la filiera italiana dell’acciaio e renderla meno vulnerabile e più competitiva in un mercato in profondo cambiamento nel quale stanno emergendo nuovi competitor molto aggressivi».
La transizione dal ciclo integrale a quello basato su forno elettrico, che nei piani dovrebbe affrontare Acciaierie d'Italia e continuare JSW Steel Italy, «è quella che richiederà il maggiore sforzo. Sono necessari fondi ingenti, tempi lunghi e approccio a tecnologie non ancora consolidate, come quella dell'idrogeno - ha detto Tosini -. Inoltre, aggiungendo altri forni elettrici al sistema siderurgico nazionale si rischia di rompere il delicato equilibrio dell'approvvigionamento nazionale di rottame ferroso: oggi ne importiamo 4-5 milioni di tonnellate l'anno; potremmo arrivare a richiederne 10-12 milioni di tonnellate, diventando secondi solo alla Turchia a livello mondiale» quanto a import di questa materia prima, che sarà inoltre sempre più difficile da reperire, soprattutto quella di qualità. Uno scenario sconvolgente, che per essere affrontato ha bisogno di "ex campioni" con un assetto proprietario stabile, che oggi sembra mancare.
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