24 marzo 2020
L’emergenza coronavirus sta cambiando il nostro modo di lavorare. Per chi può farlo, per chi era attrezzato a farlo, lo smart work è una soluzione efficace. Ci sono molte statistiche (ma ormai ci sono statistiche su tutto e il contrario di tutto!) che danno i numeri di quanti e come stanno lavorando da casa. Se dovessi commentare questi dati direi che mi lasciano molto perplesso. Fare smart working significa essersi attrezzati sia da un punto di vista tecnologico che organizzativo. Significa lavorare per obiettivi, significa… tante cose. Delle quali forse parlerò in prossimo articolo.
Oggi voglio parlare d’altro. Ma è qualcosa che ha a che fare con il lavoro smart. Come ho già raccontato tempo fa, io sono nato analogico, ma ho cominciato presto a frequentare il mondo digitale, e anche se in questo mondo sono un "immigrato" ho imparato piuttosto bene la lingua: come un magrebino che fa il muratore per un’impresa bergamasca, conosco anche un po’ il dialetto.
Ero già smartworker per scelta. La mia azienda da tempo ha adottato dei modelli di lavoro, supportati da tecnologie che consentono di svolgere la propria attività da remoto. Il mio ruolo mi impone di essere operativo ovunque fosse necessario.
Per me però è comunque cambiato molto. Da smartworker sono dovuto diventare "home worker". E a questo non ero abituato. Non avevo mai lavorato da casa prima d’ora. Erano anni che non accendevo il pc dell’ufficio tra le mura domestiche. Da tempo, anche per ragioni di sicurezza informatica, non mischio strumenti di lavoro con quelli casalinghi (smartphone e tablet). Non rispondo mai a mail di lavoro la sera, semplicemente perché non le vedo.
E si può, ve lo assicuro, in moltissime situazioni. É il modello organizzativo aziendale che deve essere in grado di rispondere ai clienti e alle altre urgenze. Solo così, a turno, si può staccare e non essere condizionati dal digitale.
Torniamo all’inaspettato ruolo di "home worker" a cui l’emergenza mi ha relegato. Ovviamente, lavorando in un’azienda orientata al lavoro in mobilità, non ci sono stati problemi tecnologici e organizzativi, né da parte mia né da parte dei colleghi.
I "casini", se così vogliamo chiamarli, sono nati sul modo migliore di organizzare il lavoro e la vita domestica, preservando la libertà che mi ero conquistato nel tempo.
Io ho fatto così; ci sono arrivato un po’ alla volta e può darsi che col protrarsi dell’emergenza, qualcosa verrà modificato.
Decalogo dell’home worker (il mio)
Non so quanto queste regole possano essere utili ad altri: io mi ci trovo bene, per il momento. Applicando la regola 8 ho anche scoperto che un decalogo non è fatto necessariamente di 10 punti: ho evitato quindi di dovermi imporre qualche nuova regola per completarlo.
di Giancarlo Gervasoni
VP Sales, Marketing, R&D, Purchasing
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