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Coronavirus: Consiglio europeo, i temi negoziali

L’analisi delle somme in gioco fatta da Gianfranco Tosini in vista del tavolo di confronto del 23 aprile

La crisi da Covid-19 sta minando le fondamenta non solo dell’economia ma anche di importanti istituzioni come l’Unione Europea, accusata di miopia e di immobilismo nei confronti dei Paesi più colpiti (come l’Italia) dalla pandemia. Ma è veramente così?

Gli interventi messi in campo

L’Eurozona, sia pure con un ingiustificabile ritardo iniziale, ha mobilitato una batteria di interventi che consentono una prima basilare risposta alla pandemia. La Banca centrale europea (Bce) ha introdotto nuovi programmi di acquisto di titoli, sovrani e privati, senza precedenti, sia per dimensione (fino a 900 miliardi di euro) che per caratteristiche. Senza il sostegno della Bce, l’Italia sarebbe già andata sott’acqua, come dimostra l’andamento dello spread fra i titoli del debito pubblico italiano ed i bond tedeschi. La Commissione europea ha sospeso il Patto di stabilità e crescita, che consente al nostro Paese di prendere decisioni di spesa immediata per contrastare le conseguenze del Covid-19, senza i vincoli di deficit e di debito. La Commissione ha anche alleggerito, come mai era avvenuto, le regole che proibiscono gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà. Su pressione del Parlamento europeo, la Commissione ha inoltre consentito all’Italia, per contrastare gli effetti della pandemia, di utilizzare i fondi non spesi del bilancio pluriennale 2014-2020, destinati alle politiche strutturali (circa 12 miliardi di euro), senza il vincolo del cofinanziamento. La Commissione ha altresì deciso un programma temporaneo di assistenza finanziaria sotto forma di prestiti agli Stati per contrastare la disoccupazione generata dalla pandemia, il cosiddetto Sure (Support to mitigate uninployment risks in emergency), di 100 miliardi di euro. La Banca europea degli investimenti (Bei), sulla base di garanzie di 25 miliardi di euro, ha messo a punto un programma di finanziamenti di 200 miliardi di euro per sostenere le piccole e medie imprese in difficoltà per la pandemia. L’Eurogruppo ha concordato di mettere a disposizione, dei Paesi che ne facessero richiesta, fondi per 240 miliardi di euro del meccanismo europeo di stabilità (Mes o Fondo salva Stati) per interventi sanitari diretti e indiretti, con la sola condizionalità che siano utilizzati per questo scopo. Infine, sempre l’Eurogruppo, ha accettato di creare un Fondo per la Ripresa ( Recovery Fund), collegato al budget dell’Ue, da finanziare “con strumenti innovativi”. Nel complesso, sono stati mobilitati circa 500 miliardi di euro, per cui è difficile sostenere che l’Ue non abbia fatto nulla per aiutare gli Stati membri più colpiti. Semmai si può dire che i programmi attivati hanno una portata finanziaria limitata se si pensa alla devastazione già prodotta dalla pandemia in Europa ed alle ingenti risorse che necessiteranno per far ripartire l’economia.

I prestiti Mes e Sure

Entrambi sono prestiti che, se venissero sottoscritti dall’Italia, andrebbero a pesare sul proprio bilancio, ma il tasso sarebbe favorevole in quanto garantito da tutti i Paesi. Inoltre il rischio di credito, qualora il nostro Paese non ripagasse il prestito sarebbe comune, quindi mutualizzato. Pertanto, la differenza tra questi due strumenti (il prestito Mes e il prestito Sure) e l’Eurobond è che con i primi sono i Paesi che si indebitano mentre nel caso dell’Eurobond, emesso da una società (o altro soggetto) veicolo speciale, sarebbe quest’ultima ad indebitarsi. Se i prestiti sopraccitati avessero una scadenza lunga (20-30 anni) ed un tasso di interesse minore di quello che l’Italia può ottenere sul mercato (come è ragionevole pensare) il trasferimento implicito sarebbe consistente e maggiore di quello ottenibile con un Eurobond. D’altra parte, uno studio ha stimato che nel caso della Grecia l’allungamento dei prestiti Mes a trent’anni ha prodotto un trasferimento netto pari a circa il 40% del Pil greco del 2011. Il problema di quei prestiti era la pesante condizionalità, ma in questo caso la condizionalità non c’è. Il punto cruciale da far valere sul tavolo negoziale del 23 aprile alla riunione del Consiglio europeo, invece, è la scadenza del prestito Mes. La scadenza prevista di due anni pone un problema nel caso in cui l’Italia non fosse in grado di rimborsare il prestito, perché non avrebbe altra strada che attingere alla linea di credito tradizionale che richiede condizionalità. Ma nella proposta dell’Eurogruppo questo punto è ambiguo e si presume quindi che ci sia spazio di negoziazione. L’Italia dovrebbe quindi puntare ad ottenere una scadenza più lunga, anziché demonizzare il Mes. Un altro terreno di negoziazione è quello della dimensione del programma Sure: 100 miliardi di euro sono pochi e si dovrebbe puntare ad espanderlo e anche in questo caso, e per le stesse ragioni, allungare la scadenza del prestito. Una maggiore capacità di leva richiede più garanzie oppure accettare un rating più basso rispetto alla tripla A, si tratta di due opzioni negoziabili.

Il fondo comune per la ricostruzione

Gli interventi dell’Ue, ancorché tardivi e limitati, aggiunti a quelli dei singoli Paesi attenueranno l’impatto negativo della crisi economica provocata dalla diffusione della pandemia, impatto che sarà comunque pesantissimo. Con l’accordo dell’Eurogruppo ci si pone in una situazione intermedia in cui l’impatto della crisi per i singoli Paesi membri sarà comunque inferiore a quello senza gli interventi dell’Ue. Tanto più che dopo l’emergenza coronavirus l’indebitamento pubblico e privato aumenterà notevolmente con il risultato di una possibile nuova crisi finanziaria, che potrebbe ricalcare quella precedente. Il rischio, quindi, va oltre quello sul Pil dei Paesi e riguarda la tenuta dell’Eurozona. Da qui l’esigenza di un piano per la ricostruzione economica europea da finanziare con emissioni di Eurobond, o altri strumenti, e prevedendo un loro quantomeno parziale acquisto da parte della Bce che potrebbe tenerli “in pancia” per tempi molto lunghi (se non addirittura per sempre). È proprio quello che hanno chiesto i Paesi del Sud nell’ambito della proposta francese del Ricovery Plan. Nell’accordo finale dell’Eurogruppo si riconosce l’esigenza di discutere di questo strumento per 500 miliardi di euro, rinviando ad una decisione dei capi di Stato e di Governo del Consiglio europeo. Nell’accordo ci si limita a dire che il prossimo bilancio 2021-2027 giocherà un non meglio specificato ruolo centrale, e quindi anche i Paesi parsimoniosi del Nord dovrebbero metterci più soldi. Ma comunque è chiaro che 500 milioni di euro non basteranno. Anche solo per una questione di tempi: l’intervento nell’economia impone tempi più rapidi dell’avvio del prossimo bilancio Ue del 2021. I ministri delle Finanze si sono limitati finora a concordare in uno sforzo per identificare i meccanismi innovativi di finanziamento. Per quanto auspicabile, sembra però di capire che sarà difficile arrivare ad un consenso sulla proposta francese, cioè di costituire una società (o altro soggetto) veicolo dedicata, che può finanziarsi sul mercato con garanzia di tutti i Paesi membri. Occorre pertanto essere aperti sulla possibilità di utilizzare altri strumenti per il piano di ricostruzione. Si può pensare di espandere il campo d’azione della Banca europea degli investimenti (Bei) oppure istituire un Fondo europeo in cui sia prevista la partecipazione nel capitale. Le opzioni per finanziarlo sono molteplici e gli Eurobond non sono l’unica strada. Ma oltre al problema di come finanziare questo veicolo, c’è quello fondamentale di capire come andranno utilizzate le risorse, anche se gli obiettivi sono chiari: riaprire l’economia facilitando la riconnessione delle catene del valore aiutando le imprese ad operare in sicurezza rispettando i requisiti di distanza fisica tra i lavoratori ed utilizzando strumenti di protezione. Ma anche investire nella infrastruttura di salute pubblica e nella ricerca epidemiologica e riconvertire alcuni settori in linea con gli obiettivi della green economy. Su questo c’è bisogno di idee innovative, perché l’esperienza dell’uso dei Fondi strutturali è piuttosto deludente, soprattutto in Italia.

Alla riunione del Consiglio europeo del 23 aprile l’Italia dovrà quindi negoziare duro su tutto quello che è negoziabile, aprendo una discussione più ampia sugli strumenti per ricostruire, il loro governo e su ciò che ha senso fare insieme per sfruttare le potenzialità del mercato unico. D’altra parte era chiaro fin dall’inizio che l’Ue avrebbe scelto di affrontare questa crisi con una molteplicità di strumenti e non con uno solo, gli Eurobond.


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