14 novembre 2019
Nella iper-informazione che in questi giorni ha messo al centro la vicenda Ilva, prova a fare chiarezza Antonio Gozzi, Ceo di Duferco, che ha seguito da vicino il sideurgico tarantino quando era presidente di Federacciai. Lo fa con un editoriale dedicato pubblicato su Piazza Levante.
Dopo avere messo in evidenza le debolezze della politica, cui spetta il compito di decidere la strada da seguire, il past president di Federacciai evidenzia i quattro punti chiave sui quali articola la riflessione.
1 – Non è vero che non si può produrre acciaio da ciclo integrale (cioè da altoforno) senza inquinare gravemente il territorio circostante e le persone che ci vivono. In tutti i paesi europei occidentali, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania all’Austria, al Belgio, all’Olanda e all’Inghilterra, ci sono impianti a ciclo integrato come quello di Taranto che convivono con territori abitati senza provocare danni. Non è credibile che la sensibilità ambientale delle popolazioni di quei paesi sia inferiore a quella italiana.
L’unico punto di differenza è che quegli impianti hanno avuto continui interventi di manutenzione e migliorie tecniche, mentre Taranto dall’uscita dei Riva (luglio 2012) non ha avuto, sino all’arrivo di Mittal, significativi investimenti ambientali. Le tecnologie disponibili consentono di mettere sotto controllo con altissimi risultati i due impianti più impattanti, e cioè cokeria e agglomerato (sinter), gli altiforni non inquinano. Basta andare a Linz, in Austria, per vedere cosa è possibile fare su un impianto a ciclo integrale con investimenti e grande cura: noi lo chiamiamo Disneyland!
2 – Non è vero che si può produrre l’acciaio con il gas. Al massimo con il gas si può produrre carica metallica (92/93% di Fe) da mettere nei forni elettrici. Peccato che questi impianti che si chiamano Dri (Direct Reduction Iron) costino una fortuna e vengano realizzati soltanto in paesi dove il gas non costa niente (Algeria, Libia, Qatar, Venezuela, ecc). In Europa non ne esiste nessuno tranne uno vecchissimo di Mittal, utilizzato pochissimo per ragioni di costi.
3 – Taranto senza una filiera integrata (altiforni, laminati, verticalizzazioni) non ha senso perché alimentare i laminatoi con semiprodotti (bramme) acquistati da fuori è economicamente impossibile. Chi dice di chiudere l’area a caldo in realtà vuole chiudere tutto lo stabilimento. È circolata la voce che ArcelorMittal vorrebbe tenersi i laminatoi e lasciare l’area a caldo allo Stato perché si occupi della sua manutenzione straordinaria ed ambientalizzazione per poi eventualmente riprenderla dopo. Questo spiegherebbe gli esuberi di 4/5mila persone. Tanti sono gli occupati nell’area a caldo.
La proposta, se davvero è stata fatta, è inaccettabile. Che competenze ha lo Stato per rifare altiforni e mettere le mani su cokerie e sinter? A chi venderebbe lo Stato le bramme prodotte dell’area a caldo? A Mittal? E a che prezzo?
4 – Certamente si possono installare forni elettrici per sostituire almeno parzialmente gli altiforni. Anche qui c’è qualche problema, però. Bisogna trovare il rottame per alimentare i forni elettrici e in Italia ce n’è poco e ne importiamo molto, il che significa che una grossa domanda aggiuntiva come quella di Taranto rischierebbe di far esplodere i prezzi del rottame stesso, danneggiando sia la competitività dell’acciaio di Taranto sia quella dei forni elettrici della siderurgia del Nord Italia. Inoltre, non tutto l’acciaio attualmente richiesto dal mercato può essere prodotto da forni elettrico; per taluni utilizzi l’acciaio prodotto con il ciclo integrale è insostituibile.
Gozzi infine ribadisce che, se si voglia davvero trovare una soluzione definitiva e duratura per l’ex Ilva, si deve trovare un equilibrio tra sostenibilità economica e compatibilità ambientale con il coinvolgimento di esperti.
14 marzo 2025
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