5 novembre 2019
La chiave per leggere la partita che si sta giocando sull’ex Ilva di Taranto è soprattutto una: capire se la lettera con la quale ArcelorMittal ha comunicato che la sua decisione di recesso dal contratto del siderurgico tarantino è il punto di partenza o di arrivo. Punto di partenza di un faccia a faccia serrato che ha come obiettivo la riscrittura del patto che ha portato il colosso mondiale dell’acciaio a Taranto: un nuovo contratto stringente e che tenga conto di una serie di elementi strutturali e di variabili che nel corso dei mesi sono profondamente mutate, a tal punto da ridisegnare i piani del primo produttore mondiale di acciaio. Punto di arrivo di una storia travagliata già totalmente raccontata e di cui la lettera ai Commissari segna la parola fine.
A lasciare aperta la strada della prima opzione (e la speranza) ci sono quei 30 giorni che servono al ritorno dei dipendenti e delle attività sotto la guida dei Commissari. Anche se chi conosce dal di dentro le dinamiche del gruppo ArcelorMittal sostiene che sarà difficile fare cambiare idea al tycoon dell’acciaio. Molto dipenderà dall’esito del vertice tra il premier e l’azienda slittato a mercoledì 6 novembre.
Se dunque, questa è la parola fine, la decisione di lasciare Taranto da parte di ArcelorMittal rappresenta la fine del sogno/progetto di rilancio. La fine del sogno/progetto che lavoro e ambiente finalmente tornassero a fare pace dopo otto anni di scontri iniziati sin da quei giorni critici del luglio 2012 in cui per la prima volta agli impianti furono posti i sigilli.
Sono molti i fattori che hanno spinto Lucia Morselli, l’ad che ha preso il posto di Matthieu Jehl, a prendere una decisione tanto forte (anche se in parte annunciata da una serie di dettagli che vanno letti a ritroso per capirne la portata).
La prima autocritica la dobbiamo fare come Paese. La politica in primis, per la continua volontà di cambiare le regole ed alzare l’asticella alla ricerca del consenso popolare più che nell’ottica dello sviluppo del sistema industriale; l’amministrazione della giustizia, con la volontà di far rispettare prescrizioni anche di fronte ad impossibilità tecniche nei tempi richiesti; sul fronte dei media, concentrati troppo spesso a rimarcare le cose che non andavano e le polemiche rispetto al lavoro positivo fatto nel corso degli ultimi mesi.
Il punto critico che è stato più volte toccato al riaprirsi dalla questione Ilva è quello della certezza del diritto, del fatto che non è possibile continuare a cambiare le carte in tavola. Un punto critico che probabilmente renderà «mission impossible» trovare qualcuno che prenda il posto e giochi il ruolo di ArcelorMittal - e trovarlo alle condizioni poste dal Governo - se non è stato possibile farlo quando gli impianti erano in condizioni decisamente migliori delle attuali.
Sicuramente la congiuntura internazionale non ha giocato a favore del rilancio dell’azienda, con il ciclo economico dell’acciaio che è entrato in una fase negativa proprio quando c’era bisogno di tenuta e di creazione di valore. Con una produzione in caduta e costi fissi non comprimibili, mantenere i livelli messi a contratto è e sarà difficile per chiunque.
La vera domanda da porsi – se quella di oggi è la parola fine - è «chi potrà decidere di avvicinarsi all’impianto se il contratto può unilateralmente essere cambiato a piacimento del politico di turno». È questo l’elemento chiave per capire se ci potrà essere un «Piano B» elaborato parallelamente all’escalation di tensione con ArcelorMittal, un piano che i lavoratori ora invocano con forza dopo che avevano più volte denunciato l’eventualità che Mittal avrebbe deciso di abbandonare se privato dell’immunità che riteneva fondamentale.
Qualunque sia il piano ora l’auspicio è che si faccia in fretta. L’azienda non può sopportare altri mesi di amministrazione straordinaria, non solo dal punto di vista finanziario ma soprattutto impiantistico, dato che i maggiori sforzi di Mittal in quest’anno si sono concentrati sull’implementazione del piano ambientale rispetto al revamping degli impianti.
Taranto e l’acciaio italiano non possono permettersi una nuova era di incertezza sul principale polo siderurgico nazionale.
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