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Elezioni Ue, tra personalismo e astensionismo

Alla luce dell'esito del voto in Germania e Francia non appare scontato un bis della presidenza von der Leyen

Translated by Deepl

Il "fattore personale" e l’astensionismo. Se si dovessero individuare due elementi di fondo, i più rilevanti tra i tanti osservabili nelle elezioni europee del giugno 2024, questa è la vera “coppia centrale”. Insieme, su scala europea, al vento di destra estrema che ha soffiato fortissimo, nel quale l’avanzata delle forze direttamente sovraniste e più inquietanti – a partire dall’Afd – si affianca a quella dei partiti euroscettici.

Da tempo la politica è una questione di numeri, nel senso della crescita incessante del numero di coloro che si astengono, e una “questione di personalizzazione”, e queste ultime elezioni europee ne sono la conferma. Con un salto di scala ulteriore, quello dell’"iperpersonalizzazione", la cui manifestazione più evidente ha coinciso con l’appello (neoplebiscitario) della premier a scrivere sulla scheda direttamente il suo nome di battesimo. Sottotesto dell’atto (comunicativo): sono una di voi e una come voi, ossia quel meccanismo del rispecchiamento e dell’identificazione che fa giustappunto perno sul fattore personale. E che si è rivelato una scommessa vincente: Giorgia Meloni “regina delle preferenze” con 2 milioni e 300mila voti, anche se (ed è un nodo politico) non andrà all’Europarlamento. E la personalizzazione era incorporata anche nel “format” che Meloni ha chiaramente perseguito insieme a Elly Schlein fino al comune tentativo mancato di dare vita a un duello televisivo che “oscurasse” gli altri leader. La polarizzazione, infatti, tende a sua volta a esaltare il meccanismo della personalizzazione, la cui forza si basa notoriamente anche sul carattere di scorciatoia cognitiva del fattore personale. Le persone (leader e candidati) si comunicano – e si ricordano – meglio dei programmi e, ancor più, delle ideologie, peraltro divenute desuete (e non si tratta comunque di un processo indolore, né così liberatorio) dall’inizio dell’età postmoderna.

Gli esiti di queste europee si possono quindi leggere proprio alla luce dei meccanismi di personalizzazione (anzi iperpersonalizzazione) politica. Di cui la stessa Schlein è, pur nella storia molto diffidente in materia della sinistra italiana, una fautrice, come ha confermato il disegno, poi naufragato, di inserimento del suo nome nel contrassegno elettorale del Pd. E, infatti, tutta la campagna elettorale dem è ruotata attorno alla sua figura. E, in secondo luogo, intorno ad alcuni ex amministratori pubblici molto conosciuti che sono risultati campioni di preferenze, come Antonio Decaro, Stefano Bonaccini, Giorgio Gori, e altri ancora (come Alessandro Zan). E proprio il principio di personalizzazione – in verità non così inedito per questo tipo di sinistra-sinistra – contenuto nella scelta di candidare Ilaria Salis ha dato un impulso inatteso al risultato di Alleanza Verdi e Sinistra (insieme all’arrivo di consensi ex 5 Stelle). E, dalla parte opposta dello spettro politico, ha fatto piovere più di mezzo milione di preferenze su Roberto Vannacci, introducendo nella Lega sorpassata da Forza Italia un ulteriore fattore di frizione, dal momento che quelli appaiono – e vengono anche rivendicati di fatto – come voti personali dell’ormai ex generale.

E con la personalizzazione – categoria estensiva – si possono interpretare anche molti altri eventi di queste europee, dalla disfatta dello scialbo cancelliere tedesco Olaf Scholz all’inaspettato trionfo del ventiquattrenne youtuber greco cipriota Fidias Panayiotou. Si è candidato da indipendente, e ha conquistato due seggi senza contare su un partito, ma avendo dalla sua 2 milioni e 600 mila followers sui social (più degli abitanti di Cipro). Giustappunto personalizzazione, e pure celebrity politics.

La Francia e la Germania, ovvero il cuore (anche in senso geografico) dell’unificazione continentale e il “condominio” guida della governance Ue, sono state entrambe sconvolte dal voto della scorsa settimana, sino alla decisione – un autentico azzardo – del presidente Emmanuel Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale e andare al voto (fra il 30 giugno e il 7 luglio). Proprio nel Paese transalpino si è verificato per la prima volta l’accordo storico fra la destra moderata dei Républicains e quella radicalpopulista (anche se sta cercando da tempo di mostrare un volto più presentabile) del Rassemblement National di Marine Le Pen. Intesa che però ha creato un terremoto tra i Républicains con l’espulsione del presidente Eric Ciotti, reo di aver siglato l’intesa senza l’accordo interno. Uno sviluppo che apre a un possibile nuovo scenario con l’ex presidente Macron che ha proposto una federazione di moderati per arginare l’estrema destra.

Mentre in Germania i Verdi e la Spd, al Governo insieme ai liberali nella “coalizione semaforo”, hanno subito un vero e proprio tracollo. Non è detto che la valanga dell’estrema destra (specialmente nei Paesi germanofoni e in Belgio) porterà a cambiare la formula di governo della Commissione e delle istituzioni comunitarie, dal momento che dovrebbero continuare a esserci i numeri per la “Grande coalizione” fra Ppe (che ha aumentato i suoi seggi), Socialisti e democratici e i liberali di Renew Europe (gli uni e gli altri usciti invece ridimensionati). Ma lo spirito di destra dei tempi è nettissimo, e tante sono le incognite – dalla decisione dei capi di Governo e di Stato del Consiglio europeo sul nome da candidare per la presidenza della Commissione (che non è scontato coincida di nuovo con quello di Ursula von der Leyen) sino ai franchi tiratori nel voto segreto. E, nel mentre, la premier italiana Meloni studia come cercare di far pesare il suo gruppo (i Conservatori e riformisti) nel “grande gioco” del potere europeo che si va configurando.


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