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USA: acciaio tra dazi e rivoluzione verde

I numeri della siderurgia americana dal 2000 al 2020

C’è stato un tempo nel quale dire acciaio significava dire Stati Uniti. Ma quel periodo è ormai alle spalle da molti anni e l’industria siderurgica statunitense, oggi, si trova ad un bivio: da un lato il protezionismo dell’amministrazione Trump sicuramente ha dato una boccata d’ossigeno al comparto, dall’altro emergono all’orizzonte nuove sfide, sia di mercato sia legate all’ambientalizzazione del settore, che sembra essere uno dei punti qualificanti della presidenza Biden. 

Produzione: Trump fa bene all’acciaio

Al termine della seconda guerra mondiale, grazie al fatto che il territorio statunitense non era stato toccato dal conflitto, gli Usa erano i leader indiscussi della siderurgia mondiale. Il Paese produceva circa il 67% della ghisa mondiale ed il 72% dell’acciaio, con una posizione di dominio indiscutibile. Negli anni post-bellici la siderurgia a stelle e strisce ha continuato a crescere, anche se a ritmo inferiore rispetto al resto del mondo, sino al picco del 1973 (229 milioni di tonnellate prodotte). Negli anni successivi si è verificato un netto calo dell’output, soprattutto tra il 1979 ed il 1984, con il sorpasso dell’Unione Sovietica come maggior produttore mondiale di acciaio, a cui ha fatto seguito una ristrutturazione del comparto, con la transizione dagli altiforni ai forni elettrici.
Negli ultimi 20 anni l’acciaio «Made in Usa» ha continuato a seguire una traiettoria declinante, con una eccezione strutturale. Andando con ordine, il 2000 è stato l’ultimo anno sopra i 100 milioni di tonnellate per la siderurgia americana, con un output di 101,803 milioni di tonnellate, un valore non più raggiunto né sfiorato nemmeno durante il boom del 2006-2007. Dopo la crisi economica del 2008-2009, la produzione si è assestata su un livello attorno agli 85 milioni di tonnellate, prima di fare un passo verso il basso nel 2015-2016, quanto l’output si è fermato attorno ai 78 milioni di tonnellate. Ma, con l’avvento alla presidenza di Donald Trump, il trend si è invertito. Grazie anche alle barriere doganali inserite dall’amministrazione repubblicana, la produzione interna è tornata a salire in maniera decisa, con un impeto che non si vedeva da anni. Nel giro di tre anni (2017-2019) le acciaierie hanno aumentato la propria attività di quasi 10 milioni di tonnellate, tornando nel 2019 ai livelli del quadriennio 2011-2014. Il 2020, per ovvi motivi, è stato contraddistinto da un calo della produzione, che è calata di oltre il 17%, fermandosi a 72,690 milioni di tonnellate. Il Paese l’anno scorso è sceso al quinto posto nella classifica mondiale dei maggiori produttori di acciaio, dopo essere stato superato dalla Russia e dietro Cina, India e Giappone.

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Consumo: il calo c’è, ma è più contenuto

Sul versante del consumo l’ultimo ventennio della siderurgia americana si può dividere in due distinte fasi: «sopra 100» e «sotto 100». La prima fase, dal 2000 al 2008, è stata testimone di un consumo di acciaio stabilmente superiore ai 100 milioni di tonnellate annue: la media del periodo è di 111,661 milioni di tonnellate con il picco nel 2006 (122,448 milioni di tonnellate) ed il punto più basso nel 2008 (101,105 milioni di tonnellate), anno pesantemente contraddistinto dall’inizio della crisi economica. Dopo l’intermezzo del 2009, nel quale sono state consumate solo 59 milioni di tonnellate di prodotti in acciaio, dal 2010 al 2019 il consumo statunitense si è stabilizzato tra i 95 ed i 100 milioni di tonnellate, con una media del periodo di 95,1 milioni di tonnellate e con un massimo di 106,957 milioni di tonnellate nel 2014. Nel 2020, infine, la domanda si è fermata ad 80 milioni di tonnellate, ma, come il 2009, anche l’anno scorso è anomalo e quindi fuori media.
Il consumo americano, quindi, segue in un certo verso quello europeo: anche nel Nuovo Mondo la domanda è calata in misura inferiore rispetto alla produzione, sottolineando probabilmente un problema sistemico dell’industria dell’acciaio dell’area.

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Commercio estero di acciaio: deficit strutturale ridotto «artificialmente»

Considerando il periodo 2000-2019 del commercio internazionale di acciaio, si nota che gli Usa sono strutturalmente importatori netti di acciaio. In questo periodo Washington è stato quasi sempre (tranne rare eccezioni nel quale è stato superato dalla Cina) il maggior importatore mondiale di acciaio, con volumi che hanno toccato un massimo di 42,192 milioni di tonnellate nel 2006 ed un minimo di 15,342 milioni di tonnellate nel 2009. Gli Usa acquistano ogni anno mediamente l’8% del totale delle importazioni mondiali di acciaio. L’export, invece, è un’attività relativamente poco sviluppata per la siderurgia americana, con volumi medi tra il 2000 ed il 2019 di 9,5 milioni di tonnellate, poco meno del 10% della produzione di acciaio a stelle e strisce.
Osservando il saldo commerciale si nota che gli Usa da sempre sono importatori netti di acciaio, con un deficit medio di circa 20 milioni di tonnellate annue. Se prendiamo in considerazione il periodo post crisi del 2009, si nota chiaramente che tra il 2010 ed il 2013 i volumi erano relativamente bassi, mentre dal 2014 al 2016 si è saliti strutturalmente sopra i 20 milioni di tonnellate. Dal 2017 in poi, grazie agli interventi di Trump, il deficit si è ridotto «artificialmente», scendendo da -25 milioni di tonnellate nel 2017 a -19 milioni di tonnellate nel 2019.

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Conclusione

Come per l’acciaio «Made in Ue», anche per quello americano il futuro si presenta ricco di sfide. Il comparto, specialmente nella parte produttiva, sembrava destinato ad un lento declino, che durava ormai da decenni, ma negli ultimi anni gli interventi legislativi dell’amministrazione Trump hanno, almeno parzialmente, invertito la rotta, con benefici per i produttori e con una riduzione della dipendenza dall’estero degli Usa. Nei prossimi anni le sfide saranno legate soprattutto alla nuova amministrazione di Biden: manterrà la protezione sul mercato interno? Se interverrà sull’ambientalizzazione dell’economia, cosa che il presidente ha già dichiarato che farà, quale sarà l’impatto sull’acciaio? Alla risposta a queste due domande sarà legato il futuro della siderurgia a stelle e strisce.

L’analisi delle prospettive macroeconomiche, strategiche, geopolitiche (e siderurgiche) di Ue, Usa e Cina sarà il cuore del webinar «Geopolitica e mercati: il mondo tra Brexit, Biden e Xi», che vedrà la partecipazione di Francesco Costa (Il Post), Giuliano Noci (Politecnico di Milano), Carlo Muzzi (Giornale di Brescia) e Roberto Re (Metinvest Europe). Per maggiori informazioni e per iscriversi all’evento clicca qui.

 


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