4 gennaio 2023
Il temuto tracollo degli ordini non c’è stato, ma ciò non vuol dire che per le fonderie il momento non sia difficile. La crisi energetica, il vertiginoso aumento dei costi, la trasformazione dell’industria dell’auto hanno avvolto nella nebbia l’orizzonte della crescita. L’acciaio nel 2022 ha fatto meglio dell’intero comparto e in linea generale la domanda resta sostenuta. Ma le sfide da affrontare sono rivoluzionarie e l’incertezza è tanta. Ecco il punto di vista di Fabio Zanardi, il presidente di Assofond, l’associazione che rappresenta le imprese di fonderia italiane. Un settore che, ricorda Assofond, conta oltre 1.000 aziende e quasi 30.000 addetti e che genera un fatturato di circa 7 miliardi di euro.
Presidente Zanardi, l’industria fusoria nazionale si avvia a chiudere il 2022 in crescita oppure la crisi geopolitica ed economica lascerà un segno sui conti e il bilancio produttivo delle aziende?
Secondo le ultime stime del Centro Studi Assofond, il settore chiuderà il 2022 con un fatturato in crescita del +18% sul 2021. Ciò nonostante, questo dato non riflette una corrispondente crescita della produzione, ma è dovuto principalmente agli aumenti che siamo stati costretti ad applicare ai nostri prezzi di vendita a causa della crescita vertiginosa dei costi. In effetti, se guardiamo ai margini, vediamo che la redditività non è cresciuta di pari passo con il fatturato, e anzi in molti casi si è quasi azzerata, soprattutto fra fine 2021 e inizio 2022, quando questa dinamica era appena iniziata ed era quindi più difficile scaricare a valle gli aumenti di materie prime e, soprattutto, energia.
Quali sono state le performance delle fonderie di acciaio quest’anno e come si collocano rispetto al comparto?
Per le fonderie di acciaio la proiezione sul fatturato 2022 vede un aumento di circa il +30% sul 2021: un dato quindi migliore rispetto a quello degli altri comparti, che va tuttavia anch’esso considerato tenendo conto della forte crescita dei costi di produzione. Rispetto agli altri comparti, però, rileviamo per l’acciaio un sentiment più positivo per i prossimi mesi: ci si aspetta, infatti, che il settore dell’oil & gas – che ha sospeso o rimandato molti progetti negli ultimi anni – possa ripartire garantendo così una domanda sostenuta nel medio termine. Diverse nostre associate, inoltre, segnalano l’arrivo di nuovi clienti che prima si rifornivano all’estero e che ora portano (o riportano) in Italia la domanda di fusioni.
Quali sono le vostre previsioni per la prima parte del 2023? La visibilità degli ordini è in linea con il recente passato?
La visibilità degli ordini, nell’ultimo trimestre rilevato (luglio-settembre 2022) è in leggero calo rispetto al precedente, ma il temuto tracollo che ci immaginavamo nei mesi scorsi per il momento non c’è stato. Anche in questo caso, l’acciaio è il comparto che se la cava meglio, con alcune aziende che hanno già ordini confermati fino a metà 2023. In linea generale, possiamo dire che la domanda resta sostenuta, ancorché con meno slancio rispetto ai mesi scorsi, e questo ci fa ben sperare per la prima parte del prossimo anno. La cautela, ad ogni modo, è d’obbligo, e fare previsioni a lungo termine è sempre più difficile, con le ben note incognite legate a costi energetici, strozzature nelle supply chain e disponibilità di materie prime.
La crisi energetica peserà ancora il prossimo anno?
Difficile pensare che non sia così. Nonostante una certa stabilizzazione, i prezzi di gas e di energia elettrica restano su livelli elevati, che impattano sulla produzione di tutte le aziende energivore. Senza contare che il prossimo inverno potrebbe paradossalmente essere più difficile di quello in corso. Molto dipenderà dalla capacità del nostro Paese di proseguire la politica di diversificazione nell’approvvigionamento di gas avviata quest’anno e che ci ha permesso di ridurre la nostra dipendenza dalla Russia. Se continueremo su questa strada, se riusciremo a mettere in funzione i rigassificatori che ci servono, penso che potremo superare anche questo scoglio.
Avete dedicato l’ultimo numero del vostro magazine “In Fonderia” all’automotive e alle trasformazioni che l’industria dell’auto è chiamata ad avviare nei prossimi anni. Cosa cambierà per le fonderie? Quali i rischi e quali le opportunità?
Il settore dell’auto è quello più coinvolto dalla transizione green. In particolare, la scelta europea di fermare la produzione e la vendita di auto a combustione interna nel 2035, se confermata, impatterà molto sulle fonderie, perché i componenti fusi presenti in un motore elettrico sono molti meno rispetto a quelli che caratterizzano un motore endotermico. Ovvio quindi che chi è specializzato nella produzione di pezzi per motori diesel e a benzina possa trovarsi in difficoltà e nella necessità di operare una non facile riconversione. Credo però che proprio la crisi energetica e la consapevolezza delle criticità di approvvigionamento delle materie prime necessarie alla produzione di batterie su larga scala possa, e debba, indurre l’Europa non ad abbandonare i suoi target di riduzione delle emissioni, ma a cercare di raggiungerli applicando il principio di neutralità tecnologica. Nel 2026 la Commissione europea valuterà se riesaminare gli obiettivi tenendo conto proprio degli sviluppi tecnologici degli ultimi anni, considerando la possibilità di dare il via libera all’uso di biocarburanti, carburanti sintetici o motori ibridi plug-in, se capaci di raggiungere la completa eliminazione delle emissioni di gas serra. Ci sono ancora margini di manovra, quindi, affinché la transizione non coincida con la totale sostituzione dei motori endotermici con quelli elettrici, scelta che porterebbe a un drastico ridimensionamento di tutta la filiera dell’auto europea con conseguenze facili da immaginare in termini sociali ed economici.
Come sta procedendo il processo di “transizione verde” dell’industria fusoria, per sua natura circolare?
I dati riportati nel nuovo Rapporto di Sostenibilità di settore realizzato da Assofond ci dicono che le fonderie italiane destinano all’ambiente più del 20% degli investimenti lordi in beni materiali. Un risultato significativo, soprattutto se paragonato ai dati ISTAT relativi sia all’industria considerata nel suo complesso (circa 1,5%), sia alla metallurgia intesa in senso ampio (cioè facendo riferimento al codice Ateco 24), che si colloca in una forbice compresa fra il 3,5 e il 4%. Del resto, i risultati di questi investimenti sono evidenti: i materiali di riciclo sono sempre più presenti nelle cariche dei forni, calano drasticamente sia le quantità di scarti prodotti per tonnellata di getti sia le emissioni in atmosfera, non si contano gli interventi di efficientamento energetico. A questo si aggiunge la sempre più diffusa consapevolezza dell’importanza di misurare le proprie performance ambientali; una pratica che, al di là delle mere esigenze di compliance alla normativa ambientale, sarà sempre più decisiva per garantirsi un importante vantaggio competitivo. Assofond sta facendo molto per diffondere ulteriormente questa consapevolezza: le fonderie di ghisa e acciaio che rispettano determinati requisiti di sostenibilità possono già richiedere al Ministero dell’Ambiente la certificazione “Made Green in Italy”, grazie all’impegno dell’associazione che ha sviluppato le regole di categoria di prodotto dei getti di ghisa e acciaio necessarie per aderire allo schema certificativo. Inoltre, abbiamo elaborato un tool semplificato per il calcolo dell’impronta ambientale, grazie al quale le imprese possono identificare le principali categorie di impatto ambientale dell’attività produttiva e su questa base identificare gli interventi più adatti a migliorare le performance di sostenibilità.
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