20 marzo 2014
È ormai un’esperienza comune ai più quella di camminare per le strade di città straniere e osservare il grande numero di negozi che si rifanno a nomi italiani, cercando di scimmiottare lo stile dei nostri prodotti (soprattutto per quanto riguarda il sistema del fashion). Non è quindi raro vedere accanto ai flagship store di Prada, Armani, Versace insegne dagli improbabili cognomi italiani – a noi del tutto sconosciute – ma che facendo leva su una presunta italianità conseguono importanti risultati di business. Molto più note sono le spavalde e truffaldine azioni condotte da player stranieri nel mondo dell’agro-alimentare: Parmesan è ormai quasi un marchio anche in Italia, tanto noto è il successo ottenuto da questo (finto) formaggio italiano specialmente nelle Americhe. E sono in molti a praticare il cosiddetto Italian sounding se è vero che il fatturato realizzato da costoro ammonta, in valore, a più del doppio dell’export conseguito dalle imprese dello Stivale. Vedendo il bicchiere mezzo vuoto, si tratta – in entrambi i casi – di comportamenti opportunistici, speculativi che, grazie a un millantato credito, hanno la loro ragion d’essere e, in verità, spesso di prosperare. Mettendoci in una prospettiva opposta, quella del bicchiere mezzo pieno, possiamo invece constatare che il cosiddetto Made in Italy è davvero molto apprezzato tanto da essere considerato, pressochè ovunque, sinonimo di qualità, creatività e innovazione. Ma le nostre imprese, a parte i soliti noti, stanno molto spesso a guardare; imprenditori e manager si appiattiscono su una dimensione di eccellenza produttiva, che diventa la “ragione d’essere di impresa” e la fonte di orgoglio da cui i titolari traggono quasi linfa vitale, mentre trascurano quasi del tutto la costruzione di piattaforme, altrettanto eccellenti, di relazione con il mercato finale. Tant’è che i più importanti marchi del lusso a livello mondiale (Chanel, Dior, Hermes, Louis Vitton, Ralph Lauren, Tom Ford) fanno realizzare buona parte dei loro prodotti in Italia – perché siamo bravi – ma sono loro a conseguire larga parte dei margini attraverso iniziative di continua valorizzazione della marca. Una situazione simile capita peraltro anche nel B2B, dove le nostre imprese operano per lo più come subfornitori di terzi, che sono più a valle nella filiera e, in molti casi, rappresentano l’interlocutore pivotale per il mercato finale. Stiamo, in altre parole, correndo il rischio che il Made in Italy diventi un marchio a disposizione di altri (stranieri) e le imprese italiane giochino la parte dei bravi (ma anche poco profittevoli) fornitori. Che cosa fare? Occorre, a mio avviso, che il nostro sistema industriale acquisisca una duplice consapevolezza. Da un lato, che arti e mestieri – di lavorazione della pelle, del tessuto ma anche dell’acciaio e di tanti altri materiali – sono nostri e rappresentano il frutto di secoli di esperimenti: nessuno ce li può rubare e/o imitare e su queste competenze occorre fare assolutamente leva. Per far che cosa? Per sviluppare, in secondo luogo, una narrativa, un racconto di queste formidabili modalità produttive che stanno alla base dei prodotti eccellenti da tutti apprezzati. Una narrativa che ovviamente deve essere scaricata a terra attraverso un’azione di marketing coerente; e a questo riguardo, lo sviluppo di una presenza digitale rappresenta la risposta più efficace: è alla portata di tutte le imprese ed è ormai una scelta che garantisce audience enormi. Insomma, anche imprese poco note, possono camminare – ma forse anche correre – nel mondo poggiando su due solide gambe: quella del pregiudizio positivo sul Made in Italy e la dimensione del racconto delle nostre tradizioni produttive, che noi non apprezziamo adeguatamente perché ci sembrano quasi scontate, ci conviviamo da sempre ma che gli altri ricercano disperatamente e apprezzano in misura molto significativa. Non è pero, questo, un cambiamento facile; richiede ai nostri imprenditori e/o manager di andare oltre la materialità, la competitività di prodotto e di puntare, invece, su asset intangibili, che per essere sviluppati richiedono investimenti – analoghi se non superiori a quelli finalizzati al miglioramento dei processi produtti e/o dei prodotti – ma che si traducono nelle costruzione di una marca, di una relazione virtuosa con il mercato finale, che è la vera fonte di profittabilità lungo la catena di fornitura. Nonostante il salto culturale, ci dobbiamo credere; non possiamo permetterci di continuare ad essere gli artefici materiali di oggetti eccellenti e conseguire una piccola fetta dei margini in quanto chi sta sul mercato finale se ne appropria di larga parte. Consapevolezza (del nostro potenziale) e determinazione (nel cambiamento) devono essere quindi alla base del nostro nuovo modo di affrontare i mercati internazionali.
Le rubriche precedenti
Giuliano Noci
30 aprile 2025
L'intervista a Simone Pavan, Technical and Marketing manager ifm electronic, che dal 6 all'8 maggio parteciperà a Made in Steel.
Lascia un Commento