16 maggio 2024 Translated by Deepl
PIOMBINO (Li) - Il suo cuore ha cessato di battere la mattina del 24 aprile 2014. A difenderlo c’erano uomini, donne e persino bambini. Da allora il silenzio è piombato sulla città-fabbrica. Niente più rumori né fumi, solo lo stridio dei gabbiani in uno stabilimento già praticamente deserto. Il gigante d’acciaio, l’altoforno 4, da ieri mattina non c’è più. La forza di sette potenti ruspe ne ha provocato il collasso. Scarnificato, indebolito dai tagli effettuati con la fiamma ossidrica, ha resistito per tutta la giornata di ieri, poi ha ceduto sotto gli sguardi di centinaia di occhi, di telefonini e telecamere, pronti a immortalare la fine di un’epoca, quella il cui tempo era segnato dal rumore degli scooter che la mattina si mettevano contemporaneamente in moto per il primo turno di lavoro segnando i ritmi di vita della città dell’acciaio.
Non è stato abbattuto solo un “mostro” di ferro arrugginito, ma un pezzo di storia, fatta di lavoro duro, di sacrifici, purtroppo anche di gravi incidenti e morti sul lavoro. Un prezzo che Piombino ha pagato in cambio di un benessere diffuso che per oltre un secolo e mezzo ha richiamato in un piccolo borgo di poco più di 3mila anime migliaia di persone in cerca di pane e fortuna, di una occasione di riscatto economico, sociale e culturale. Una storia caratterizzata da grandi progressi tecnologici, ma anche da drammatici conflitti sociali per la conquista di salari e condizioni di lavoro migliori.
Quello di Piombino è stato il primo stabilimento a ciclo integrale d’Italia. Il primo altoforno a legna entrò in funzione nel 1899, subito sostituito nel 1905 da un impianto a coke, già positivamente sperimentato nello stabilimento di Portoferraio. Una storia che ha attraversato i destini di pace e di guerra, di distruzioni e ricostruzioni dell’Italia.
La storia dell’altoforno numero 4 è recente. La sua inaugurazione risale al 1978, insieme a quella del laminatoio vergella, diventato presto il fiore all’occhiello dell’acciaieria di Piombino. È grazie a quei due impianti che la fabbrica riuscì a salvarsi dalla crisi manifesta dell’acciaio dichiarata dall’Europa e dai colpi di accetta del piano Davignon.
Piombino resiste. Nel 1983 raggiunge una delle punte di massima occupazione, oltre 7mila unità, oltre quelle di un vasto indotto e degli occupati nel tubificio Dalmine e della Magona. Resiste anche alle dismissioni delle partecipazioni statali e assiste alla chiusura dell’area a caldo di Cornigliano e alla dismissione di Bagnoli.
Gli anni successivi, quelli della gestione Lucchini, hanno visto un graduale ridimensionamento dell’occupazione, fino a che proprio quel gigante di ferro è diventato ingombrante. Un cuore generoso ma rigido, non si può rallentare né arrestare la sua marcia. Il mercato dell’acciaio subisce nuovi sbalzi, la concorrenza della Cina e di Paesi dell’Est è schiacciante.
Ci riprova la Severstal di Alexey Mordashov, ma poi è costretta ad abbandonare al sopraggiungere di un’altra crisi, quella finanziaria che di nuovo sconvolse i mercati mondiali. Lo stabilimento viene messo in vendita per un euro, affidato alle banche che vantano un credito con la già ex Lucchini di 700 milioni di euro. I margini di salvezza sono pochi e l’amministrazione straordinaria è vissuta come l’ultima spiaggia. I possibili acquirenti arrivano, guardano e se ne vanno. Nessuno sembra voler accollarsi il peso di uno stabilimento con un’area a caldo quasi completamente da rifare. Quel gigante d’acciaio, fonte di lavoro e ricchezza, non può piegarsi al mercato e diventa fonte di una voragine di perdite.
Si arriva così a quel 24 aprile, alla decisione della sua fermata appesa alla speranza che non sia quella definitiva. Dieci anni da quel giorno, qua e là disseminati di illusioni e centinaia di milioni spesi per alimentare la cassa integrazione.
Eppure, quella fine, che molti ritenevano impossibile, è arrivata. Oggi è stata scritta l’ultima pagina su quello che fu il primo stabilimento siderurgico a ciclo integrale d’Italia. Molti hanno visto scomparire insieme a quella sagoma imponente una parte dei propri sacrifici ma anche un tenore di vita dignitoso, altri come una storia da cui liberarsi.
Così l’Afo 4 è scomparso da una città ancora alle prese con una dolorosa crisi d’identità, dove il vecchio muore e il nuovo stenta ad avanzare.
Giorgio Pasquinucci
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