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Sette Governi in nove anni. La discontinuità politica ha pesato sull'Ilva

Da Mario Monti a Mario Draghi, troppe politiche contrastanti per il rilancio del siderurgico

C’è una cosa che forse in Italia manca più che in altri Paesi, e va sotto il nome di "continuità amministrativa". Ogni governo nominato prova, legittimamente, a dare la propria impronta alla risoluzione delle grandi questioni, ma quando - come nel caso della vicenda dell’ex Ilva di Taranto - in nove anni di crisi si alternano ben sette Governi diversi, ognuno con un approccio diverso, i risultati non sono quelli sperati.
Proprio come quando un malato cambia sette medici diversi e ognuno, con le migliori intenzioni, propone una terapia diversa, senza però permettere ai farmaci precedenti di manifestare gli eventuali effetti benefici, il risultato può essere più di aggravamento della “malattia” che della sua cura.

Il breve excursus proponiamo forse renderà più chiare le basi di questo ragionamento.

2012 - Mario Monti: «Pagheranno i Riva»
Partiamo dallo scoppio della crisi Ilva nel luglio 2012. Il Governo in carica era l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti (16 novembre 2011-21 dicembre 2012); i ministri che si occuparono della crisi Ilva furono Corrado Passera allo Sviluppo economico e soprattutto Corrado Clini all’Ambiente.
La gestione della crisi del governo Monti fu semplice: il principio base era che i responsabili avrebbero dovuto rimediare al danno, a fronte però di una nuova e stringentissima Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata direttamente da una task force ministeriale. Con il senno di poi era forse il miglior approccio possibile.

2013 - Enrico Letta: «Commissariamo per ambientalizzare»
Al Governo Monti successe l’Esecutivo di “Larghe intese” guidato da Enrico Letta (28 aprile 2013–22 febbraio 2014). In questo caso i ministri principali legati al siderurgico furono Flavio Zanonato allo Sviluppo economico e Andrea Orlando all’Ambiente.
Inizialmente l’approccio fu effettivamente in continuità con quanto deciso dal Governo Monti.
Ma solo fino a giugno, quando le tensioni tra Ilva e Magistratura portarono al maxi-sequestro per un valore di 8,1 miliardi di euro (poi annullato in Cassazione) che fece dimettere l’intero consiglio di amministrazione dell’azienda in segno di protesta. Il Governo allora decise di commissariare l’Ilva, nominando commissario l’ex ad Enrico Bondi.
Dal momento che l’azienda non poteva teoricamente essere commissariata perché non presentava allora elementi di insolvenza, venne studiata una formula nuova. I proprietari dell’azienda restavano tali, ma la sua gestione era diretta dallo Stato. L’idea di base era quella che, siccome il privato non era in grado di risanare l’azienda, lo Stato l’avrebbe gestita in maniera temporanea collaborando con la procura, per portare a termine le opere di ambientalizzazione e riconsegnarla ambientalizzata ai proprietari al termine del percorso.
La scelta, alla luce dei risultati ottenuti, si può dire che non fu premiante. L’Ilva sostenne spese enormi per avviare l’ambientalizzazione, con un limite produttivo a 6 milioni di tonnellate e senza poter operare riduzioni di organico. L’effetto sui conti fu devastante. Anche se a Bondi va il merito di essere stato il primo, sei anni fa, a valutare la possibile conversione di parte degli impianti a gas e preridotto. Quello che venne a mancare furono le risorse e in parte la volontà politica di far decollare quel piano.

2014 - Matteo Renzi: «Troviamo un acquirente»
Nel momento cruciale infatti il governo Letta cadde e a Palazzo Chigi salì Matteo Renzi (22 febbraio 2014–7 dicembre 2016) che, in prima battuta, nominò come ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e Gianluca Galletti all’Ambiente. L’impostazione di Bondi, poi affiancato dall’ex ministro Edo Ronchi come commissario ambientale, non convinse mai l’esecutivo, che al termine del primo anno di gestione non rinnovò il mandato ai due manager, sostituendoli con Piero Gnudi (uomo di fiducia del ministro Guidi). L’impressione è che l’idea di Gnudi fosse solo quella di vendere l’Ilva ad un nuovo privato, non curandosi di qualsiasi altra spesa che non fosse quella per il personale e per le opere di ambientalizzazione non rinviabili. Di Gnudi i primi contatti con ArcelorMittal per la cessione.
Il problema è che i conti andarono a picco e nel gennaio 2015 l’Ilva entrò per la prima volta in legge Marzano, con la nomina di un triumvirato di commissari alla gestione: a Piero Gnudi si affiancarono Corrado Carrubba, per le opere ambientali, ed Enrico Laghi come esperto di impresa.
Se prima l’obiettivo dell’esecutivo Renzi sembrava la sola cessione dell’azienda, ora - complice anche il super consulente Andrea Guerra - l’idea divenne quella di revampare e risanare l’azienda, per poi poterla vendere a un prezzo competitivo sul mercato, attirando il maggior numero di interlocutori. Un processo che vide poi il 5 gennaio 2016 pubblicare il bando per le manifestazioni di interesse a rilevare i vai asset del gruppo. Un processo che durerà anni, complice anche l’allungamento delle tempistiche di nulla osta dall’Antitrust europea. Nel frattempo alla dimissionaria Federica Guidi allo Sviluppo economico si sostituì il 10 maggio 2016 Carlo Calenda.

2016 - Paolo Gentiloni: «Concludere la vendita»
Calenda che resterà in carica anche nell’Esecutivo di Paolo Gentiloni (12 dicembre 2016-24 marzo 2018), forse l’unico Governo - visto anche il mantenimento di Gianluca Galletti all’Ambiente - ad operare in continuità con il precedente sulla vicenda Ilva. 
Per l’intero corso dell’esecutivo, l’obiettivo fu arrivare alla finalizzazione della cessione dell’Ilva al vincitore della gara internazionale, ArcelorMittal; una finalizzazione che però sarà sottoscritta solo dall’esecutivo successivo: il primo Governo Conte (1 giugno 2018–20 agosto 2019). 

2018 - Giuseppe Conte 1: «L’ex Ilva torna privata. Miglior accordo possibile»
Ministro dello Sviluppo economico venne nominato Luigi Di Maio, mentre il dicastero all’Ambiente venne assegnato a Sergio Costa.
In una prima fase, la gestione della vicenda Ilva fu molto confusa. Da un lato vi era la base del Movimento 5 Stelle che si sarebbe aspettato la chiusura del siderurgico; dall’altra vi erano accordi e vincoli internazionali che non permettevano una gestione naïf della vicenda, con gli impianti che dovevano continuare a produrre. Dopo un progressivo innalzamento delle richieste in termini di tecnologie e investimenti ambientali, si arrivò ad un accordo: il contratto venne firmato e nel settembre 2018 divenne pienamente operativo, grazie al raggiungimento dell’intesa anche con le parti sociali. Sembrava si fosse arrivati al punto di svolta.
Non fu così però, complice una serie di complicazioni, prima fra tutte quelle sul mercato il piano di rilancio dello stabilimento non decollò. E anzi, quando si decise di procedere con l’eliminazione dell’immunità penale fino al completamento delle opere di ambientalizzazione arrivò la decisione di ArcelorMittal di abbandonare Taranto, rescindendo il contratto nel novembre 2019.

2019 - Giuseppe Conte 2: «Lo Stato torna in siderurgia»
Una "patata bollente" che si sarebbe però trovato a gestire il Conte 2 (5 settembre 2019–26 gennaio 2021), con allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, affiancato sempre da Costa all’Ambiente. Siamo alla storia recente: ministro e stakeholder lavorano a un confronto che porta ad una nuova intesa per il rilancio, quella del dicembre 2020 che ha stabilito l'ingresso di Invitalia nel gruppo siderurgico, con un aumento di capitale da 400 milioni di euro.

2021 - Mario Draghi: «Serve un piano nazionale per l’acciaio»
Arriviamo infine all’esecutivo attuale, quello guidato da Mario Draghi (13 febbraio 2021-). Ministro dello Sviluppo economico è Giancarlo Giorgetti, mentre all’Ambiente c’è Vittorio Colao.
Esecutivo che al momento, però, ha frenato l’entrata dello Stato in Ilva proprio per la sentenza del Tar diffusa nel giorno del giuramento. Sentenza che dichiara legittima, ad un anno di distanza, l’ordinanza sindacale del primo cittadino di Taranto sulla chiusura dell’area a caldo del siderurgico. Sentenza che verrà analizzata dal Consiglio di Stato il prossimo 13 maggio. L’impressione è che fino ad allora il Governo, nonostante le pressioni di ArcelorMittal e sindacati, non voglia dar corso all’accordo per evitare eventuali ulteriori complicazioni legali per un’ex Ilva a trazione pubblica. Inoltre, è stata più volte sottolineata la volontà di gestire la vicenda Ilva all’interno di un piano nazionale per la siderurgia.

Tante strade, pochi traguardi
Ripercorrendo gli ultimi anni, risulta quindi chiaro che ogni Governo abbia preso quelle che riteneva le scelte migliori. Spesso però la discontinuità ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti, dal momento che in nove anni di incertezze gli impianti hanno subito un progressivo deperimento.
L’impressione è che forse troppo spesso la componente politica, soprattutto durante il lungo commissariamento, sia stata focalizzata sul consenso sociale, attribuendogli un valore superiore al mantenimento in equilibrio dell’attività in maniera da poter generare risorse con cui finanziare autonomamente il risanamento.

Un’operazione che finora non è riuscita nemmeno al maggior produttore siderurgico mondiale. Forse le risorse del Recovery Plan europeo potrebbero far definitivamente uscire da questa impasse, consegnando fondi con cui revampare in ottica compatibile gli impianti, lasciando ai gestori come unico obiettivo il recupero commerciale ed economico dell’azienda al fine di farla tornare ad essere profittevole nel pieno rispetto della compatibilità ambientale.

Se anche questo tentativo non avrà successo, probabilmente la storia dell’ex Ilva non avrà un lieto fine come auspicato da ognuno dei governi che hanno provato ad imprimere la svolta del cambiamento.


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  • Commento utente

    Hps Steel

    Se non fosse stato perpetrato nel 2011 un Esproprio di Stato in stile "venezuelano", saremmo oggi di fronte ad una storia (molto) diversa. Tutto Il resto è figlio delle logiche clientelari, abbinate ad incompetenze generali.


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Edmund Burke

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