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Ex Ilva, lo strano caso del "microchip" nella tuta

Riflessione su come una tecnologia innocua può fare paura e diventare oggetto di scontro

Durante il periodo estivo ci sono meno attività quotidiane da svolgere. Rimane così un po' più tempo per pensare a migliorare i processi lavorativi e un po' più tempo per la formazione e anche per l'informazione. Mi sono così imbattuto in un articolo di un quotidiano nazionale. Parla, questo articolo, di Ilva e nello specifico della situazione precaria e della poca chiarezza rispetto al suo futuro. Lo fa dando voce alle preoccupazioni dei sindacati.

Fin qui non vedo motivo per cui io possa avere qualcosa di interessante e originale da dire, però il titolo dice altro, parla anche di "microchip nella tuta".

La cosa allora si fa interessante: per storia lavorativa di tecnologia IT e di "microchip" ne so qualcosa. Vediamo allora se posso imparare altro. Leggo bene tutto l'articolo e scopro che c'è una sigla sindacale che ritiene che ci sia il rischio che i lavoratori vengano tracciati e monitorati con dei microchip inseriti nelle divise di lavoro.

Intuisco, penso a ragione, che si stia parlando di TAG RFid. Questa tecnologia, l'RFid, non è un'invenzione diabolica di qualche intelligenza maligna che vuole dominare e controllare il mondo; anzi: è piuttosto datata e abbastanza diffusa. Si tratta di un, per semplicità chiamiamolo ancora così, "microchip" che può essere letto a distanza tramite delle antenne. La distanza di lettura varia in funzione del tipo stesso. Può andare da alcuni metri, come può essere nel Telepass dell'auto, a pochi centimetri, come può essere in un badge per accedere al posto di lavoro e "timbrare". Quindi, anche senza metterlo nelle tute all'ILVA, questo "famigerato" microchip ce lo portiamo addosso tutti i giorni. E' usato ad esempio anche negli abbonamenti dei mezzi di trasporto o per accedere agli impianti di risalita delle piste di sci o anche per viaggiare in traghetto a Venezia.

Ci sono, a partire dall’articolo ma andando decisamente oltre, alcune cose sulle quali vale la pena riflettere. E che voglio condividere con la community dell’acciaio (e non solo). Vediamole insieme.

La tecnologia aiuta anche nelle attività più banali
Il "microchip", prima o poi smetto di chiamarlo così visto che so esattamente cos'è (ma non voglio rinunciare completamente all'elemento comunicativo che mi ha attratto nella lettura), è nelle tute perché queste vengono lavate dall'azienda e rese pulite al lavoratore. L'utilità sta nel fatto che il processo di restituzione della tuta al legittimo proprietario è automatizzabile e il numero di errori, scambio di indumenti tra lavoratori, diventa estremamente basso. Con oltre 10.000 dipendenti direi che è una eccellente idea, comoda per il lavoratore che ha sempre la sua tuta e comoda per l'azienda che riesce a spuntare dalla lavanderia un prezzo inferiore per il lavaggio. Si direbbe un processo "WIN-WIN": tutti ne beneficiano. 

Nonostante sia un'eccellente idea, non è assolutamente una novità assoluta perché molte lavanderie industriali, che servono comunità in cui ci sono indumenti da rendere esattamente al proprietario come in associazioni o case di riposo, usano questa tecnica. A me pareva normale, del resto è più o meno il mio lavoro. Ma il motivo per cui se ne scriveva qui era un altro.

La tecnologia fa paura (ogni tanto però)
La sigla sindacale, immagino in rappresentanza di alcuni lavoratori preoccupati, che probabilmente ha diffuso il comunicato stampa ripreso dal giornalista, non ha ritenuto fosse buona cosa. Teme infatti che i lavoratori vengano controllati a distanza con uno strumento invisibile e quindi ancor più orribile: il "microchip".

Cosa si poteva fare allora prima di prendere una posizione? Magari chiedere all'azienda che forse aveva già spiegato tutto, nel dubbio verificare chiedendo a qualcuno che ne capisse qualcosa (evitare Facebook o l'amico "tecnico esperto"): come dicevo, si tratta di qualcosa che esiste da tempo, facilmente identificabile da qualcuno che ne sa. Nella fattispecie la risposta sarebbe stata che la lettura dei dati può avvenire solo a distanza brevissima e usando particolari antenne. Quindi, basandomi sulle informazioni che ho dedotto (poche), e con la mia esperienza (di più) direi che non ci sono pericoli.

Ma se volessi veramente tracciare una persona in uno spazio lavorativo, avrei bisogno di un "microchip"? Direi proprio che non mi serve. Le tracce di ciò che portiamo con noi sono spesso sufficienti. Il badge per timbrare, ad esempio, altro non è che una variante del TAG (basta "microchip", se siete arrivati fin qui evidentemente la lettura è adeguatamente attrattiva di suo) che starebbe negli indumenti. Chi lo porta indosso è teoricamente (ma è praticamente impossibile) tracciabile come nel caso dei vestiti. Di solito però, oltre che dei vestiti, quando siamo al lavoro non ci priviamo mai del nostro "amato" smartphone, che tra l'altro in alcuni casi usa una tecnologia, l'NFC, che è parente stretto del "microchip" (ci sono cascato di nuovo!). Oltre a quello, molto più facili da leggere, il dispositivo emette una serie di segnali radio, bluetooth, WI-FI, rete cellulare, che sono molto più comodi da seguire (se uno volesse).

Se dobbiamo preoccuparci della nostra privacy e della nostra riservatezza, preoccupiamoci sempre.

L'ignoranza fa paura (quando facciamo senza esserci informati adeguatamente)
L'ignoranza in questo caso è intesa in senso letterale: si intende semplicemente mancanza di conoscenza adeguata.  I problemi che genera quando condiziona le nostre decisioni non informate sono facilmente ovviabili. O non si prendono decisioni (quando si può), o le si lascia prendere a chi ne sa (meglio verificare che non si tratti di un altro ignorante travestito da informato), oppure la migliore: ci si informa e si impara. Imparare, soprattutto se non si è obbligati, è spesso un'attività piacevole.

di Giancarlo Gervasoni
VP Sales, Marketing, R&D, Purchasing
Zerouno Informatica spa 

 


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