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«Il CBAM pregiudica gli esportatori europei»

L’analisi di Saravalle e Stagnaro: enorme sforzo di compliance che si fonda su informazioni non verificabili

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Il Carbon Border Adjustment Mechanism promette di avere un sensibile impatto sul commercio di acciaio, sia in entrata che in uscita dall’Unione europea.

Per ora, il meccanismo ha messo sulle spalle degli importatori europei un notevole carico di adempimenti burocratici (con il portale online che ha funzionato a singhiozzo, tanto da indurre la Commissione a concedere una proroga di un mese per la consegna della prima dichiarazione per comprovati problemi tecnici). Si farà sul serio da gennaio 2026, quando agli obblighi burocratici si aggiungeranno quelli finanziari per l’acquisto dei certificati CBAM, il cui costo sarà calcolato in base al prezzo medio delle quote EU ETS, che nel frattempo andranno esaurendosi per la parte gratuita.

Delle prospettive per gli scambi internazionali di acciaio abbiamo parlato con l’avvocato Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro. Il primo è professore associato e docente di Diritto dell’Unione europea all’Università di Padova, partner dello studio legale BonelliErede ed editorialista. Il secondo è direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni.

Sarebbero due i problemi più grandi: il CBAM richiede «un enorme sforzo di compliance che però fonda su informazioni non verificabili» ed è «certamente suscettibile di pregiudicare le imprese siderurgiche europee esportatrici», richiedendo loro una spesa per la decarbonizzazione che i competitor non devono sostenere. Il tutto in uno scenario in cui sarebbe ancora tutta da verificare la capacità del Meccanismo di favorire e accelerare il processo di decarbonizzazione dell’industria, europea e, per il cosiddetto “Effetto Bruxelles”, globale.

Considerando le articolate catene di approvvigionamento dell'acciaio, quali sono le sfide pratiche e amministrative che le imprese devono affrontare nell'adempimento del CBAM?
Le aziende sono tenute a ricostruire i processi a monte dei prodotti che esse importano per determinare la quantità di emissioni. Per raccogliere queste informazioni, che sono tanto più numerose e complesse quanto maggiori sono gli stadi di lavorazione del prodotto, esse non possono che affidarsi ai dati che ricevono dai propri fornitori e, in alcuni casi, dai governi dei Paesi nei quali i prodotti intermedi vengono fabbricati o assemblati. Pertanto, saranno chiamate a rispondere della veridicità di informazioni che non sempre possono concretamente verificare.

Una delle maggiori difficoltà per chi importa acciaio sembra essere, al momento, la raccolta delle informazioni dagli esportatori nei Paesi terzi per poter compilare le dichiarazioni. Come risolvere questo problema?
La stima dell'effettivo contenuto emissivo dei prodotti costituisce l'architrave dell'intero CBAM, ma si basa inevitabilmente su dati stimati top-down dalle istituzioni europee ovvero su informazioni non necessariamente veritiere o accurate. Insomma, alla base di tutto rischia di esserci un enorme sforzo di compliance che però fonda su informazioni non verificabili.

Il CBAM potrò penalizzare le imprese siderurgiche europee sul mercato internazionale? Se sì, come si potrebbe rimediare?
Per come è disegnato oggi, il CBAM è certamente suscettibile di pregiudicare le imprese siderurgiche europee esportatrici. Il meccanismo è stato pensato per creare un level playing field all'interno dell'Unione europea, ma, eliminando la distribuzione delle quote di emissione gratuite, le obbliga a sostenere dei costi che i concorrenti esteri non hanno. Questo problema era ben chiaro quando fu introdotto il sistema ETS e fu risolto salvaguardando i settori energy-intensive, trade-exposed, con tali quote. Così fu fatto salvo l'incentivo a ridurre le emissioni, senza determinare uno squilibrio competitivo eccessivo verso i concorrenti esteri. Il problema, dunque, non è in sé il CBAM, ma il fatto che esso inevitabilmente va di pari passo con il phase-out della distribuzione gratuita delle quote. Una possibile via d'uscita potrebbe essere quella di riconoscere una sorta di rebate sui prodotti esportati riconoscendo agli esportatori un credito di imposta di valore pari a quello delle quote di emissione sottostanti ovvero direttamente restituendo loro le quote ETS. In questo modo tali quote "uscirebbero" dai costi di produzione dell'acciaio esportato e quindi non danneggerebbero gli esportatori sui mercati extra-europei. 

Il Meccanismo potrà favorire un’ulteriore regionalizzazione del mercato dell’acciaio, compromettendo la competitività delle imprese dell’Unione?
In un certo senso questo è uno degli obiettivi del CBAM: l'idea di fondo è creare una sorta di “climate club”, con la speranza che i Paesi terzi siano incentivati ad adottare politiche climatiche comparabili a quelle europee per sfuggire al CBAM. È una scommessa comprensibile ma azzardata. Innanzitutto, è verosimile che le politiche, anche se simili, utilizzino criteri diversi e, in secondo luogo, si rischia di indurre molti altri Paesi a creare (per esclusione) una sorta di "anti-climate club". Si arriverebbe così a una profonda segmentazione del mercato. Alcuni Stati assorbiranno l'acciaio verde, mentre altri non si porranno per nulla questo problema. Quale sarà l'impatto finale sulle emissioni globali - se cioè assisteremo a un mero reshuffling dell'acciaio a livello globale o se invece si creerà un incentivo efficace alla decarbonizzazione anche fuori dai confini europei - è tutto da vedere.

È un problema che, al momento, il CBAM riguardi solo le materie prime e non i prodotti finiti? Quali le possibili conseguenze?
Questo è un problema inevitabile, data la complessità del Meccanismo. È estremamente probabile che si creino distorsioni. Per esempio, può diventare conveniente importare un prodotto finito (come le pale eoliche, escluse dal CBAM), anziché un prodotto intermedio (l'acciaio) per fabbricare quel medesimo prodotto in Europa. Ciò danneggerebbe le imprese europee a valle e, potenzialmente, anche quelle a monte, visto che importare una pala eolica dall'estero (esclusa dal CBAM e fabbricata con acciaio che non incorpora il costo dell'ETS) potrebbe essere conveniente rispetto a produrre l'acciaio in Europa (pagando quindi l'ETS) o importare l'acciaio da fuori (pagando il CBAM) e poi realizzare in Europa la pala. D'altro canto, le complessità di estendere il CBAM a tutti i prodotti sono ingestibili. Quindi questo rischio fa parte inevitabilmente della scelta del Meccanismo: la domanda di fondo è se i benefici del meccanismo sono tali da superare tutti questi rischi. 

Quali sono le potenziali controversie internazionali che potrebbero emergere con il CBAM?
Il meccanismo di risoluzione delle controversie in ambito WTO non funziona da alcuni anni perché gli Stati Uniti hanno bloccato la nomina dei giudici dell’organo d’appello, ritenendo che avesse agito al di fuori del proprio ambito di competenza. Nonostante le numerose dichiarazioni di intenti per ripristinarlo, ad oggi il sistema è ancora paralizzato. Nel frattempo, l’Ue e alcuni Stati (tra i quali la Cina) hanno posto in essere un sistema ad interim che consente di risolvere le controversie in sede di appello davanti a un organo arbitrale. Lo strumento ha efficacia limitata perché vincola solo i Paesi che ne fanno parte. Vedremo se l’attuale stallo del sistema di risoluzione delle controversie in ambito WTO sarà risolto quando il CBAM sarà operativo. In tal caso è ipotizzabile che alcuni Stati, le cui imprese sarebbero penalizzate, promuovano un’azione nei confronti dell’Ue.

Quali sono, invece, le sfide e le opportunità che il CBAM potrebbe presentare all’industria europea dell’acciaio e ai suoi partner commerciali?
Come dicevamo prima, la scommessa del CBAM è di indurre Paesi terzi che oggi non hanno adeguate politiche climatiche (o che hanno politiche meno rigorose delle nostre) ad allinearsi allo standard europeo. Si parla al riguardo di “Effetto Bruxelles” e ha funzionato in altri settori, visto che l'Europa rimane uno dei mercati più ricchi del mondo. È, però, difficile che l'Europa da sola riesca a imporre i propri standard al resto del globo in questo settore: dovremmo fare uno sforzo negoziale per trovare uno standard comune con altri paesi, a partire dagli Stati Uniti. Più aumenta la dimensione fisica ed economica delle aree del pianeta che condividono standard climatici, più diventa verosimile che gli altri Paesi seguano.


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