5 settembre 2024 Translated by Deepl
Paolo Magri, amministratore delegato e chair del comitato scientifico di ISPI, sarà tra i relatori del siderweb FORUM, in programma a Vicenza il 26 settembre. Magri è uno dei massimi esperti in Italia su temi di politica internazionale e per questo gli abbiamo rivolto alcune domande per introdurre alcune delle tematiche che affronterà durante la sua presentazione all'evento, con un interesse specifico nei confronti dei mutamenti in atto dell'ordine globale e il ruolo degli Stati Uniti, della Cina e della Russia.
Nel febbraio 2022 l’invasione della Russia in Ucraina ha fatto ripiombare il nostro mondo nell’incubo della guerra. La prima parte di quella guerra, tuttora in corso, è stata caratterizzata da una battaglia molto violenta a Mariupol, conclusasi con la distruzione di una delle maggiori acciaierie che si affacciavano sul Mar Nero. In questo contesto e tenendo conto anche del ruolo dell’Ucraina come fornitore di grano e della Russia di gas, quanto è centrale il controllo dell’approvvigionamento delle materie prime in questo conflitto? O si tratta solamente di un elemento accessorio in uno scontro politico internazionale?
Alcuni hanno letto la guerra russa come un tentativo di appropriarsi delle risorse ucraine: secondo questa lettura, prima del 2022 la Russia dipendeva dalle entrate derivanti dalle esportazioni di gas verso l'Ucraina (principale cliente di Gazprom) e l'Ue e i depositi energetici (5,4 tcm di riserve di gas stimate) e il sistema di gasdotti ucraini rappresentavano una minaccia competitiva per le esportazioni energetiche russe. Eppure, Mosca già possedeva le più grandi riserve di gas al mondo. Più che nell’appropriazione di nuove risorse, le vere cause dell’invasione sono da ricercarsi in altri aspetti di natura politico-strategica, come la volontà di competere con l’Occidente (soprattutto gli Usa).
Va però precisata una cosa: se a febbraio 2022 la Russia ha deciso di lanciare l’invasione su larga scala è perché sapeva di poter esercitare pressione sull’Europa anche in virtù del proprio ruolo di fornitore energetico. E se la prima invasione – quella del 2014 – è iniziata con l’annessione della Crimea e i combattimenti in Ucraina orientale, è anche perché è lì che sono concentrate la maggior parte delle risorse ucraine. Pertanto, seppur non causa principale del conflitto, le risorse e le materie prime rimangono in un certo senso centrali, soprattutto nella logica di sopraffare l’avversario minandone l’economia e il morale.
Guardando a Occidente, il mondo attende il risultato delle prossime elezioni americane per capire quale sarà la linea politica seguita da uno dei paesi leader. Sia Trump che Biden durante le rispettive presidenze hanno dato molta importanza alla tutela dell’economia americana, partendo da acciaio e produzione industriale locale. Nell’attuale contesto globale, è ipotizzabile pensare che l’America tornerà a essere paladina del libero scambio o siamo ormai del tutto entrati in un periodo di protezionismo commerciale?
Pensare che l’America possa tornare a essere paladina del “free trade” sarebbe come aspettare Godot. Nell’era dell’insicurezza e della sfida di nuove potenze emergenti, la politica Usa ha capito che erigere barriere commerciali è diventato l’unico modo per dare una parvenza di sicurezza immediata ai lavoratori (nonché elettori) di certi settori. Repubblicani e democratici si trovano allineati e continueranno a esserlo. Si pensi soprattutto al “botta e risposta” di sanzioni e contro-sanzioni tra Washington e Pechino, cominciato con Trump (con moti impulsivi) ma che Biden (con più raziocinio) non ha fatto nulla per contenere. I produttori di acciaio lo sanno bene: Biden ha imposto nuovi dazi contro l’acciaio cinese e ha messo per ora il veto sull’acquisizione economicamente valida dell’azienda US Steel da parte della giapponese Nippon Steel (sembra di essere tornati indietro di 40 anni!). Mosse per compiacere i lavoratori della Rust Belt, ma che non fanno stare tranquilli gli alleati occidentali. Ciò non significa che le elezioni di novembre siano ininfluenti. L’eventuale seconda versione di Trump sarebbe sicuramente più radicale in molti ambiti e prevede dazi fissi su tutta la linea e dollaro più debole. È il presupposto per una guerra commerciale e valutaria su larga scala. Dal canto suo, l'agenda commerciale di Harris resta al momento vaga (nel suo discorso alla convention di Chicago non ha accennato al tema), ma è certo che la stagione del Wto e dei grandi accordi di libero scambio è finita per dare spazio a dazi, controlli all’export e sussidi. Persino noi europei ce ne siamo resi conto.
La Cina che ruolo sta giocando? La prosperità dell’economia cinese è stata per molto tempo centrale nella valutazione della posizione presa all’interno delle questioni di politica internazionali. Sta cambiando qualcosa in questo senso?
Non è cambiata l’attenzione cinese per l’interesse economico nazionale, ma è cambiato il contesto. Xi Jinping, infatti, ha più volte affermato che stiamo vivendo «grandi cambiamenti come non si vedevano da un secolo». È una frase che il leader cinese ha ribadito anche incontrando Putin a Mosca e si riferisce alla trasformazione dell’ordine globale che, nella visione cinese, è caratterizzata dal declino – almeno relativo – degli Stati Uniti e dall’ascesa di nuove forze. Nella retorica russa e cinese, accolta con entusiasmo da tutto il mondo non occidentale, le nuove forze prendono la forma del Global South.
È questa la chiave di lettura per interpretare il sostegno cinese alla Russia e a Gaza, per Pechino espressione di un Sud opposto al Nord sia nel caso ucraino sia in Medio Oriente. L’interesse economico cinese prende forma nella capacità di gestire queste trasformazioni e transizioni di potere, caratterizzate dalla creazione (seppur abbozzata) di opposti schieramenti, che hanno come manifestazione pratica la ridefinizione delle catene del valore tagliando fuori la parte politica avversa.
Emanuele Norsa
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