13 marzo 2014
Sabato mattina, al riparo dal bombardamento di e-mail, squilli del telefonino e persone che ti chiedono «solo un minuto», ho trovato il tempo per rispondere alle richieste di lavoro contenute nei numerosi curriculum arrivati in quest’ultimo periodo. Mi ha preso lo sconforto nel leggere le storie di questi ragazzi e ragazze, quasi sempre laureati e con ottimi percorsi scolastici, esperienze lavorative interrotte dalla crisi, capacità, conoscenze linguistiche, competenze relazionali e di lavorare in squadra ecc. ecc. Sulla carta sono nomi ma sono persone reali: Mirella F., Lavinia C., Adriano L., Martina T.. Sono volti che, al di là del sorriso di circostanza, trasmettono disperazione, richiesta di attenzione, di aiuto e tanta voglia di entrare in un mondo che non da loro spazio. Sono occhi che chiedono, lanciano accuse e gridano rabbia! Mi sono domandato: come mai i giovani di questa generazione, quella dei miei figli, stanno pagando in misura sproporzionata la decadenza di questa nostra società italiana? Perché loro? Che colpa ne hanno? E quali responsabilità ha la nostra di generazione? E quella dei nostri padri (nonni della massa dei disoccupati) che sono ancora in molti casi nelle stanze dei bottoni di questa società opulenta, ma senza un futuro? Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è ormai al 40%: quelli che riescono (o che possono) vanno all’estero (e in questo modo perdiamo anche i talenti migliori); gli altri, quelli che hanno finito gli studi e non lavorano, raccontano di una generazione che non trova spazio, che invia inutilmente curriculum o che ha smesso, sfiduciata, anche di inviarli. Un’altra questione che emerge, sottolineata dagli eventi di questi giorni, è la questione femminile. Con la battaglia sulle quote rosa nelle liste elettorali si è reso esplicito quanto le donne, che rappresentano come i giovani un’immensa opportunità di cambiamento e di crescita, siano discriminate: a parità di posizione professionale guadagnano il 15% in meno e il tasso di disoccupazione per le donne è al 46% (uno dei più alti in Europa). Attenzione: questi dati non rappresentano l’effetto del declino. Ne sono la causa! Scrivevo nel mio editoriale del 13 febbraio che l’innovazione è prima di tutto un fatto culturale. I Paesi che riescono oggi ad essere più dinamici e innovativi, quelli che crescono, sono proprio quelli in cui si è capito che i giovani e le donne costituiscono due gruppi sociali attraverso i quali il cambiamento si realizza più facilmente. Nella nostra cultura, al contrario, si attribuisce troppo prestigio all’età. Si considera l’esperienza più importante della fantasia e della creatività, mentre è sotto gli occhi di tutti che le idee che hanno rivoluzionato gli ultimi trent’anni sono state concepite e realizzate da giovanissimi. I giovani sono naturalmente portati all’innovazione, ma non c’è spazio per loro in una società come la nostra dove impera il conformismo culturale e dove il rischio non è incoraggiato. E, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti anche il risultato di questa concezione! Siamo vecchi, rilassati e … maschi.
Da dove partire per dare spazio ai giovani, alle donne e riuscire a «darci finalmente una mossa»?
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