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Tornare a leggere e approfondire, in questi giorni, le vicende dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, mi ha portata non solo a soddisfare la mia sete di informazioni ma a fare un passo in più. A guardare le tante pagine di giornale, le news sul web, i post e gli approfondimenti in tv con un occhio più critico, per provare, se possibile a cercare una morale, un insegnamento.

Vorrei condividere il risultato di queste riflessioni. Spesso diciamo che l’acciaio è termometro dell’economia reale, misurarne lo status significa misurare la temperatura del PIL dell’intero Paese e così, allo stesso modo, le vicende di Acciaierie d’Italia, da dodici anni a questa parte, rappresentano una cartina tornasole, lo specchio di un declino che riguarda non solo la siderurgia italiana, ma tutto il sistema Paese, drammaticamente schiacciato da una crisi culturale prima ancora che economica. “Tutto è in frantumi e danza” era il titolo di un saggio di Nesi e Brera, che riassume bene questo presente. 

“Serve un’autocritica generale” scriveva ieri il direttore responsabile di siderweb; sì, e aggiungo, serve una presa di responsabilità, da parte di ognuno di noi. Dobbiamo renderci consapevoli e assumerci la responsabilità di un declino - confermato e certificato anche dal 57esimo Rapporto annuale del Censis - che definisce noi italiani sonnambuli, che stiamo vivendo un sonno profondo, incapaci di reagire con efficacia e tempismo agli annosi problemi che ci trasciniamo.

E così siamo inciampati in quella che il Censis ha definito una “ipertrofia emotiva”, dove le argomentazioni razionali vengono travolte da “paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici” che non aiutano nello scioglimento coraggioso dei tanti nodi e contrapposizioni che ingarbugliano la matassa Italia.

Pensiamo solo ai nodi, alle contrapposizioni che la vicenda ex Ilva ha portato al pettine: la prima contrapposizione è quella tra i due diritti, entrambi sacrosanti, alla salute e al lavoro (cercando di evitare sia posizioni di eco-ansia tossica sia quelle del becero negazionismo); visioni diverse riguardano anche il ruolo dell’industria manifatturiera - e quindi dell’acciaio che ne è la spina dorsale - nell’economia dei Paesi avanzati; visioni diverse anche tra pezzi stessi dello Stato (magistratura, procure ed enti territoriali contro Governo); tra chi pensa che lo Stato debba riprendersi Acciaierie d’Italia e chi ritiene che lo Stato debba lasciare ai privati questa attività; tra chi ha deciso un commissariamento (visto spesso come un esproprio senza indennizzo) e chi era contrario; e ancora, tra socio privato (interessato a investire e a focalizzarsi su altre aree del mondo in crescita) e socio pubblico (troppo zigzagante nelle sue decisioni e orientato solo a spingere un po’ in là palla).

E ancora, e ancora; e mi chiedo: come è possibile decidere, assumere delle decisioni e prendere una via dritta, se i presupposti sono così contraddittori, inconciliabili, contrapposti?

Eppure… alla base di una strategia di successo “basterebbero” tre elementi: me lo insegnò per la prima volta il mio istruttore (durante una gara di nuoto!) che una strategia, per essere di successo deve basarsi su tre pilastri fondamentali: sulla conoscenza lucida e precisa del contesto e dell’ambiente competitivo, perché è sempre il mercato, attuale e prospettico, a guidare ogni scelta; secondo, sulla definizione di obiettivi misurabili, semplici, coerenti e di lungo periodo. Infine, su una realistica mappatura e valutazione delle risorse a disposizione, siano esse manageriali, tecnologiche, impiantistiche, di know-how, finanziarie, umane, etc.

Su questi tre pillar si basa una corretta e ampia analisi della strategia. Analisi a cui deve seguire la cosiddetta “execution”, ovvero l’implementazione efficace e coraggiosa realizzata da imprenditori capaci e determinati, in grado di guidare squadre di donne e uomini altrettanto motivati e skillati.

Quando li si legge, questi passaggi potrebbero sembrare semplici, ma se ci riflettiamo bene nella storia pluridecennale dell’ex Ilva, non si sono mai verificati. Basta leggere le numerose analisi proposte in questi giorni, capaci di fare emergere le tantissime contraddizioni e lacune di un rilancio che è sempre rimasto in potenza più che in atto.

All’attuale Esecutivo - nel cui campo è ora la palla - è mancato un piano strategico, unitario e proattivo, una visione di Paese e quindi di Politica Industriale in grado di superare lo short-termismo a cui questo clima da campagna elettorale permanente ci ha ormai assuefatto.

L’unica speranza è che, in questa drammatica emergenza, qualcosa si riesca ancora a recuperare. Per il bene di Acciaierie d’Italia, dell’acciaio italiano e delle filiere che esso alimenta e dell’Italia tutta. Perché a un Paese come il nostro non basta continuare a giocare in difesa cercando di contenere i danni ma ha un grande, emergente e necessario bisogno di ridisegnare il proprio posizionamento futuro e definirne la strategia per conquistarlo, attuarlo, concretizzarlo. 


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