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Assofond: alle porte una grossa apertura di mercato

Per Ariotti le fonderie si confronteranno con la sfida dell’alleggerimento e la necessità di nuovi processi progettuali

Nei primi nove mesi dell’anno (ultimi dati disponibili), le fonderie di acciaio hanno perso l’11,7% di produzione rispetto allo stesso periodo del 2019: merito dei primi due mesi molto positivi e di un 2019 ancora recessivo. Più marcate risultano infatti le perdite di volumi di ghisa (-31,5%) e non ferrosi (-24,4%). Quanto al fatturato, l’acciaio si aspetta di chiudere l’anno con una contrazione tendenziale del 18%; del 23% la ghisa e del 22% i non ferrosi. Lo dicono le fonderie associate ad Assofond. In questo contesto, cosa si attende l’associazione nel breve periodo? Lo abbiamo chiesto al presidente, Roberto Ariotti.

Presidente Ariotti, cominciamo con una domanda sul futuro. Nel 2021 il comparto delle fonderie riuscirà a recuperare le perdite del 2020?

Non torneremo nel 2021 ai numeri del 2018, che per noi è stato un anno di pieno carico. Ma sono confidente che faremo un bel passo avanti: sono fiducioso in un recupero nell’ordine del 10/15%. I primi mesi sono discretamente impostati come lunghezza del portafoglio ordini. C’è un barlume di ottimismo. È chiaro, però, che la seconda ondata di lockdown ha un po’ congelato il quadro di una ripartenza più robusta che si delineava a settembre e ottobre. Una frenata che non si è ancora tradotta sui numeri di previsione dell’anno prossimo. Tuttavia, è certo che il comparto meccanico e manifatturiero ha sofferto molto meno rispetto ad altri.
 
E il 2020, che ormai è chiuso?

Inutile perdersi a dire quanto siano stati brutti il primo e il secondo trimestre. Il recupero nel terzo e quarto trimestre sono stati piuttosto robusti. Il “pessimismo cosmico” di luglio si è mitigato e c’è stato un bel rimbalzo: allora ci proiettavamo a fine anno pensando a un -30/35%. La tendenza invece è migliorata: nelle ultime settimane tanti colleghi sono, non dico in piena produzione, ma al lavoro in maniera soddisfacente quanto a volumi. Per questo prevediamo di chiudere l’anno con calo del 10/15% complessivo. Certo è chiaro che i risultati economici soffriranno in maniera marcata per le botte prese durante l’anno. Tuttavia, ancora una volta, abbiamo dimostrato di essere un sistema robusto e resiliente. Anche dal punto di vista sanitario: ancora in questa seconda ondata registriamo pochissime assenze; le fonderie sono luoghi lavorativi molto protetti.

Con l’evoluzione dei vostri settori utilizzatori (penso per esempio alla transizione dell’automotive verso l’elettrico; all’eolico, al solare e ad altre fonti rinnovabili da potenziare con il Green Deal europeo), quali sono le innovazioni di prodotto e processo che vi sono e saranno richieste?

C’è un enorme e radicale cambiamento in corso, che impatta sull’automotive in modo diretto e sull’impiantistica in modo indiretto. Ci chiama a un grosso impegno verso l’alleggerimento, che vede le fonderie essere un partner tecnologico essenziale e prezioso. È attraverso la tecnica di fonderia, infatti, che si possono aggregare in un unico elemento tanti componenti che invece devono essere prima costruiti e poi assemblati con i processi tradizionali. Un passaggio che stiamo affrontando, e che richiede un grosso sforzo da parte dei committenti e delle università, è quello che riguarda la ricerca e lo sviluppo sui materiali e sui sistemi di progettazione. È necessario che si diffonda una cultura progettuale che vada oltre il far riferimento a un unico database su lamiere e ferro, che arrivi a includere cioè la conoscenza delle proprietà di un fuso anche grazie alle tecnologie di collaudo non distruttive, che sono sempre più presenti, affidabili e disponibili. Da questo punto di vista, siamo potenzialmente sul ciglio di una grossa apertura di mercato per noi. Ci sarà un cambiamento: magari le ghise grigie tradizionali perderanno ulteriormente quota di produzione, ma potranno crescere i materiali leggeri o più performanti. C’è davvero bisogno di uno sforzo di ricerca. Speriamo che i piani europei in arrivo, che sono così centrati sui temi della neutralità climatica e dell’economia circolare, tocchino anche le nostre filiere. Siamo provider di soluzioni tecnologicamente efficienti e volte alla carbon neutrality, contribuendo a una progettazione più leggera e coerente con la lettura ecologica del ciclo di vita integrale dei prodotti. E i nostri materiali sono riciclabili al 100%.

Da tempo state lavorando sulla riduzione dell’impatto ambientale delle fonderie, insieme alla comunicazione degli sforzi fatti e dei risultati ottenuti. A che punto siete arrivati e quali sono i prossimi passi?

Stiamo facendo un lavoro profondo. Penso per esempio al progetto Effige (finanziato dall’Unione europea, vi hanno aderito anche le fonderie italiane, uniche in Europa; ha l’obiettivo di introdurre e sperimentare il metodo PEF – Product Environmental Footprint, per calcolare l’impronta ambientale dei prodotti nel loro completo ciclo di vita, ndr). È attualmente in corso la presentazione di questo modello alle fonderie spagnole, ma lo stiamo proponendo anche ai tedeschi e a tutto il resto delle associazioni europee e alle filiere vicine alle nostre. Sarebbe molto bello che, anche magari per tramite di siderweb, filiere alternative a quella fusoria, basate sulla realizzazione di certi componenti tramite l’assemblaggio dei metalli, possano adottare questo metodo, in modo da poter valutare insieme quale siano i prodotti e i processi più efficienti in termini anche ambientali e consapevolmente orientarsi verso essi.

Se questa è la premessa, cosa chiedete a un’Europa che sta domandando sempre di più all’industria in termini di riduzione del proprio impatto ambientale?

L’Europa, che ci tasserà in funzione dell’impatto ambientale e della carbon footprint, deve riconoscere la nostra buona performance. Non solo, politicamente dovrà anche trovare dei modi per affermare un po’ di protezione per noi che siamo compliant rispetto a queste stringenti norme. Perché se saremo tassati in base alle nostre emissioni, allora non ha senso che entrino in Europa prodotti uguali ai nostri che sono però realizzati senza l’analoga attenzione alle emissioni clima alteranti. Curiosamente, su questo non c’è ancora una grande sensibilità politica in termini di protezione dell’industria europea.

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