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L’Unione europea alle prese con le sfide autunnali

Next Generation Eu, sostituzione del commissario al Commercio, trattativa sulla Brexit e rapporti internazionali

Quanti rompicapi per l’Unione europea nei mesi a venire, tra le incertezze economiche legate al Coronavirus, gli scenari geopolitici in grande movimento e la necessità anche da parte della Commissione di rivitalizzare la propria immagine. C’è da capire se a Bruxelles saranno in grado di rispondere con efficacia a tutte queste sfide. L’Unione da un lato prende tempo, ma dall’altro non ha tempo da perdere.

Il capitolo economico è sicuramente quello più complesso. Dopo l’accordo raggiunto dai capi di Stato e di governo lo scorso luglio sul Next Generation Eu che comprende anche il famigerato Recovery Fund, ora l’intero piano economico-finanziario deve passare il vaglio parlamentare (europeo e di singoli Stati nazionali) e sicuramente vi saranno modifiche tenendo conto che tuttavia vi sono Paesi membri, come l’Italia, che chiederanno un anticipo di qualche decina di miliardi di euro già per quest’anno per ovviare alle politiche di deficit.

Lo scontro tra Frugali, Paesi della Coesione e Gruppo di Visegrad non è scomparso, piuttosto è semplicemente sotto traccia e non se ne ha notizia solo perché nell’ultimo mese non sono state prese decisioni rilevanti.

Il primo campo di scontro sarà lo stanziamento dei fondi Sure per la cassa integrazione. Anche in questo caso vi è una proposta della Commissione, che dovrà essere discussa nelle cifre dal Consiglio e potrebbe vedere qualche colpo di coda di Paesi Bassi e scandinavi (degli 81 miliardi previsti ben 27,4 sarebbero destinati all’Italia, non proprio uno scherzo). Ma al di là dei vari strumenti per la risposta alla crisi, bisognerà vedere entro fine anno i dati dell’economia europea e non le semplici stime; l’intensità del rimbalzo che tutti evocano (e auspicano) dipenderà inevitabilmente dagli effetti nei prossimi mesi per quando riguarda l’epidemia del Covid-19.

Per il momento il virus è stato fatale, dal punto di vista politico, per l’ormai ex commissario europeo del Commercio, l’irlandese Phil Hogan. Protagonista insieme a molte altre figure di spicco della politica di Dublino in quello che è stato definito "golfgate" (la cena organizzata in occasione del cinquantesimo anniversario  dell’Oireachtas Golf Society, il golf club del Parlamento irlandese), Hogan ha dovuto dimettersi per aver infranto le restrizioni anti-Covid, non solo in patria, ma anche di rientro da Bruxelles.

A ben guardare potrebbe essere considerata una bufera politica sproporzionata se si pensa che fra due settimane è addirittura in programma una plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo (zona di allerta arancione) con molto personale in arrivo da Bruxelles (zona di allerta rossa per il Covid). Hogan ha pagato altro: nei mesi scorsi aveva lasciato intendere di voler correre per la guida del Wto, ma lo ha fatto appena insediatosi come commissario del Commercio, sollevando non pochi imbarazzi per la presidente Ursula von der Leyen e in patria (dove addirittura il governo uscente di Leo Varadkar - poi sconfitto alle elezioni - aveva lasciato trapelare l’intenzione di non sostenere Hogan nella sua corsa per l’incarico di segretario generale).

Insomma una vendetta in piena regola, ma che ha un risvolto della medaglia decisamente più sanguinoso per l’Unione. Il commissario irlandese, le cui deleghe sono state temporaneamente assegnate al vicepresidente Valdis Dombrovksis, era uno di quelli che sapeva il fatto suo ed era un ottimo negoziatore: nell’era Juncker da commissario all’Agricoltura aveva concluso un buon accordo sulla fornitura di soia dagli Stati Uniti, una mossa intelligente per spuntare l’aggressività commerciale di Trump. Nei mesi scorsi aveva portato a termine uno storico accordo commerciale con il Mercosur, anche se l’ombudsman europeo ha aperto un’indagine a luglio sulla sostenibilità ambientale e sociale dell’intesa.

E nei mesi a venire Hogan, un irlandese, avrebbe dovuto trattare il delicato dossier degli accordi commerciali con il Regno Unito a seguito della Brexit, fronteggiare l’aggressività statunitense (con mosse imprevedibili da qui al 3 novembre da parte di Trump) e le mire d’espansione cinesi. Per certi versi era l’uomo giusto al posto giusto e ora le sue dimissioni aprono grossi interrogativi per uno dei top job nella Commissione: i tre candidati potenziali proposti dall’Irlanda (il più accreditato sarabbe l’ex ambasciatore irlandese negli Stati Uniti, Daniel O’Sullivan) non paiono essere all’altezza del loro predecessore, tanto che la von der Leyen starebbe immaginando un rimpasto di deleghe che però allunga inevitabilmente i tempi per una soluzione al nuovo commissario al Commercio.

La qualcosa riporta ai nodi irrisolti e su cui l’Europa deve comunque prendere una posizione: il negoziato sulla Brexit, anche per effetto del Covid, è a un punto fermo e anche il caponegoziatore dell’Unione Michel Barnier ha di nuovo sventolato lo spettro del "no deal" se Londra dovesse continuare a cincischiare. Al di là dei diritti dei cittadini europei nel Regno e di quelli britannici nel Vecchio Continente su cui un accordo di massima c’è già, uno dei veri temi è quello dei rapporti commerciali: il "no deal", o quella che è stata chiamata "hard Brexit", rischia di far sprofondare gli scambi Ue-Uk in uno scenario Wto con dazi e una grande perdita in termini economici da entrambi le parti.

La scelta felice di aver individuato poi un irlandese a capo del Commercio europeo era un modo in più per mettere pressione, anche psicologica, ai britannici, con l’aggiunta che Hogan, avendo fatto 5 anni all’Agricoltura, aveva ben chiara anche la partita legata alla produzione di carne e latte. Ora è tutto da rifare.

Sul fronte rapporti con la Cina, l’ultimo tour del ministro degli Esteri cinese Wang Yi è stato rivelatore delle intenzioni di Pechino: non è solo una questione di 5G, il governo cinese cerca una sponda europea, nella sfida commerciale senza esclusione di colpi con gli Stati Uniti. Si invoca da più parti una collaborazione più stretta, ma la cancellazione del vertice Cina-27 che era in programma a Lipsia, durante il semestre tedesco, per il 14 settembre, si ridurrà a una videoconferenza con il presidente Xi Jinping. Ufficialmente è stato rinviato per il coronavirus, in realtà le ragioni sono da ricercare nell’impossibilità di trovare tra le parti una sintesi e una posizione comune per un accordo economico equo e che possa considerarsi sostenibile per gli europei.

E questo ci porta all’ultimo punto, quello dei rapporti internazionali per l’Unione: quella che doveva essere la Commissione geopolitica, come l’aveva definita la stessa von der Leyen, si trova in oggettiva difficoltà. A est la Federazione russa continua a ricoprire il ruolo di perturbatore: oggi il tema è quello della Bielorussia, ma non bisogna dimenticare che nella zona orientale dell’Ucraina si continua a combattere, seppur a bassa intensità. Dei rapporti con gli Stati Uniti si è già detto e scritto tutto, dall’economia alla sicurezza (con le tensioni continue nella Nato), dalla collaborazione (mancata) sul fronte sanitario alla guerra commerciale, l’amministrazione Trump ha portato i rapporti ai minimi storici, peggio anche del periodo di George W. Bush e della guerra in Iraq che aveva spaccato il fronte europeo.

La Cina gioca il ruolo del finto amico pronto ad aggredire la nostra economia e il nostro sistema produttivo. Ogni tempo ha le sue difficoltà, ma a Bruxelles servirebbe una scossa o il tentativo di opporre un’immagine di Europa determinata, oltre l’asse franco-tedesco.


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