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Acciaierie d'Italia, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso

Annullata la sentenza del Tar di Lecce. Nessuno spegnimento per l'area a caldo

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Nessuno spegnimento in vista per l'area a caldo dell'ex Ilva. Il Consiglio di Stato ha pubblicato la sentenza che accoglie il ricorso di ArcelorMittal e Invitalia contro la sentenza del Tar di Lecce che legittimava l'ordinanza sindacale per lo spegnimento dell'area a caldo. 

La notizia è stata confermata da un comunicato stampa dell'azienda: «Il Consiglio di Stato, all’esito dell’udienza del 13 maggio 2021, ha disposto l’annullamento della sentenza del TAR di Lecce n.249/2021. Vengono dunque a decadere le ipotesi di spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia e di fermata degli impianti connessi, la cui attività produttiva proseguirà con regolarità».

Il ribaltamento della sentenza del Tar di Lecce dello scorso 13 febbraio 2021 da parte del Consiglio di Stato è più attribuibile ad un cambio di strategia difensiva da parte dei ricorrenti, nel caso ArcelorMittal (AM) affiancato poi da Invitalia, che alla presentazione di nuovi elementi rispetto al precedente confronto giudiziario.

Nel ricorso contro l'ordinanza sindacale al Tribunale amministrativo regionale pugliese, infatti, AM aveva puntato sull’illegittimità da parte del sindaco a varare l’ordinanza. Un presupposto rispedito al mittente da parte dei giudici pugliesi, che ribadirono come il primo cittadino avesse tra le proprie funzioni principali proprio la tutela della salute pubblica e pertanto fosse legittimato a varare provvedimenti che la difendano da eventuali minacce.

Nella documentazione presentata al Consiglio di Stato lo scorso 13 maggio si è invece fatto marcia indietro su questo punto, ammettendo la legittimità di Rinaldo Melucci a varare l’ordinanza. Il ricorso quindi, più tecnico, si è concentrato sul fatto che il sindaco e la sua amministrazione comunale avessero o meno espletato tutti gli opportuni accertamenti istruttori prima del varo dell’ordinanza. Valutazioni che, alla luce dell’accoglimento del ricorso, risultano mancanti.

«È conseguenziale rilevare come sia mancata una previa valutazione scientifica del rischio direttamente riconnesso agli eventi emissivi di cui si teme la ripetizione – scrive il Consiglio di Stato -. Né risulta parimenti accertata la sussistenza di un possibile rischio che non risulti fronteggiabile con gli strumenti tipici predisposti dalla disciplina cui si è fatto più volte menzione. Alla luce delle motivazioni sinora articolate, il potere di ordinanza non risulta suffragato da un’adeguata istruttoria e risulta, al contempo, viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione. In conclusione, per le concorrenti motivazioni innanzi evidenziate, va dichiarata l’illegittimità dell’ordinanza impugnata e ne va conseguentemente pronunciato l’annullamento».

Il CDS specifica, inoltre, che vi era l’assenza «in concreto» dei presupposti di “contingibilità” e “urgenza” per il provvedimento, dal momento che faceva riferimento a fenomeni noti, su cui tra l’altro era già in fase di attuazione un piano di interventi per la risoluzione degli stessi. Per cui non si trattava di un fenomeno estemporaneo a cui porre rimedio nel minor tempo possibile, anche con provvedimenti urgenti, ma si sarebbero potuti e dovuti fare gli opportuni accertamenti prima del varo dell’ordinanza.

Una sentenza che entra nel merito del metodo adottato per il provvedimento. Un focus ben diverso, e per certi aspetti trascurato, nella sentenza precedente, che si è limitata a dibattere della legittimità dello stesso e non della sua struttura. Al di là delle motivazioni, è chiaro che la sentenza odierna apre una fase nuova per l’azienda, anche se il sindco Melucci ha già annunciato il prosieguo della battaglia legale in Europa.


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