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Perché l’Italia cresce poco?

Finito il tempo della svalutazione competitiva. Non abbiamo saputo cambiare passo

I dati recenti sulla crescita del PIL italiano, pubblicati dall’Istat, confermano come il nostro Paese continui a crescere meno della media dei Paesi dell’UE. Non esiste una singola grande causa della bassa crescita italiana; purtroppo le case sono più d’una, che hanno reso questa malattia italiana cronica, e per questo molto difficile da curare.

La crisi ha solo accentuato i problemi
L’Italia non cresce, o cresce poco, da almeno quindici anni, già prima della grande crisi del 2008-2009. È quindi sbagliato pensare che sia stata quella crisi a provocare i nostri problemi; semmai li ha accentuati. Almeno a partire dagli anni ’90, la nostra economia ha perso la spinta alla crescita. Il nodo è stato il cambio di regime imposto dalla moneta unica; le imprese italiane si sono trovate a competere con i concorrenti, soprattutto tedeschi, senza avere: le loro istituzioni, la loro forza competitiva (produttività), il loro posizionamento settoriale, la loro presenza sui mercati mondiali. Sono rimaste intrappolate in un modello economico non più adeguato a cogliere le sfide del nuovo scenario. Basti pensare al grave ritardo che hanno accumulato nell’introduzione delle nuove tecnologie digitali e, soprattutto, alla difficoltà di definire nuovi modelli di business e di entrare in nuovi settori e nuovi mercati. Passare dal “vecchio” modello, basato su complementarietà tra fattori produttivi, tra istituzioni, tra mercati e modelli culturali di comportamento, ad un nuovo modello più adatto a cogliere le opportunità del nuovo scenario è molto difficile. Esso richiede azioni su più fronti: rinuncia alle vecchie complementarietà per farne sorgere di nuove. Ci vuole tempo, determinazione e, soprattutto una classe dirigente con una visione condivisa del modello futuro verso cui si vuole tendere. Questa visione è mancata e ancora manca. Una parte del mondo imprenditoriale e delle èlite globaliste vuole andare verso il mercato aperto, ma la pancia del Paese spera ancora di sopravvivere nel vecchio “piccolo mondo antico”. C’è poi chi propone un modello che si rifà al capitalismo scandinavo, caratterizzato da un alto livello di spesa pubblica, politiche di accrescimento del perimetro pubblico, ritorno alle protezioni del lavoro, politiche industriali e cosi via. Peccato che i paesi scandinavi non sono più così e soprattutto, perché l’Italia ha un’industria manifatturiera che necessita di mercati aperti. Non sapendo cosa vogliamo diventare abbiamo fatto delle riforme incomplete. 

La congiuntura attuale
Nella fase attuale la ripresa dipende essenzialmente dalla domanda dei paesi extraeuropei che incide in misura più limitata sull’economia del nostro Paese, essendo le esportazioni italiane più concentrate nell’area dei Paesi UE. Se l’Europa non riparte una fetta consistente del nostro sistema produttivo non può avere chance di sviluppo. Nel contempo la capacità di trascinamento della grande impresa rispetto alle piccole e media imprese si è ridotta e si è ristretto il peso della manifattura sul PIL italiano. La capacità di trascinamento della crescita da parte della manifattura è quindi diminuita ed è più bassa in Italia che in Germania. E tra manifatturiero e terziario vi è un problema di legami. C’è il nodo della produttività che non si riesce a far crescere perché non utilizziamo come fanno altri le nuove tecnologie, soprattutto quelle digitali: la forza lavoro non è abbastanza non è abbastanza istruita; le imprese sono troppo piccole; siamo concentrati in settori dove l’«information tecnology» non è strategica; sono pochi gli analisti di mercato capaci di usare i “big data”. Ma c’è anche un effetto perverso delle riforme del lavoro: la precarietà del lavoro fa calare la produttività delle imprese. In un paese avanzato la produttività cresce soprattutto attraverso la nascita di nuove imprese, più innovative di quelle esistenti. È questo processo di entrata di nuove imprese e di uscita di quelle meno efficienti che fa salire la produttività.

L’unica speranza è nella domanda
In Italia questo meccanismo di ricomposizione e di riallocazione delle risorse non funziona come dovrebbe: sono pochi i nuovi imprenditori con elevato capitale umano, manca la finanza capace di sostenere chi ha idee nuove. Da ultimo c’è una domanda interna che langue, contribuendo a rimpicciolire ulteriormente la manifattura. La quota di imprese manifatturiere che sa agganciarsi alla ripresa mondiale è solo una parte molto ridotta di una settore manifatturiero che è più piccolo rispetto a prima. Una fetta rilevante delle imprese esportatrici vende i propri prodotti non nei paesi extraeuropei con elevati tassi di crescita ma al di là delle Alpi, dove la domanda non è molto più tonica che in Italia. Serve quindi una ripresa della domanda interna per far ripartire la grande massa delle piccole imprese industriali e il terziario tradizionale che rappresentano la parte più rilevante del nostro sistema economico.


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