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Perchè le nostre piccole e medie imprese (anche siderurgiche) non si quotano in borsa

 

Ciò che colpisce di Piazza Affari nel raffronto con le altre principali borse europee è la sua cronica limitatezza, il suo essere periferica, poco rilevante: vi partecipano infatti circa trecento aziende, ma solo quaranta di queste, che rappresentano oltre l'80% della capitalizzazione totale, intercettano il 90% degli scambi. E si tratta più che altro di grandi conglomerati bancari, assicurativi, telefonici e energetici. Da una recente analisi condotta da Mediobanca si apprende che su quattromila imprese di medie dimensioni, cioè con fatturato compreso tra i 15 e i 300 milioni di Euro, e con un numero di dipendenti compreso tra i 50 e i 500, solo una ventina sono quotate.

Cerchiamo dunque di capire le ragioni di una tale riottosità tutta italiana alla quotazione borsistica, iniziando con il considerare le motivazioni che dovrebbero indurre a una tale scelta. In linea generale, come si studia sui libri di economia aziendale, l'obiettivo primario sarebbe quello di intercettare capitali freschi da destinare al finanziamento di progetti di crescita, evitando il ricorso al credito. Un'altra classica motivazione è legata ai processi di privatizzazione di grandi imprese pubbliche. La quotazione può inoltre essere perseguita nell'intento di acquisire maggiore notorietà e prestigio a livello nazionale e internazionale, migliorando lo standing creditizio della società. Le ragioni possono essere anche molte altre, ma è un fatto che Piazza Affari resta l'approdo di pochi.

Quali sono, dunque, gli aspetti ostativi? Il blocco più potente è da sempre costituito dal complesso dei costi, degli obblighi e delle responsabilità pretesi dal tradizionale processo di quotazione. Non si tratta di aspetti di poco conto: talune pesanti incombenze riguardano l'azienda e il suo management sia nei preliminari sia durante l'iter stesso di accesso al mercato mobiliare, ma altri oneri e obblighi, soprattutto di natura informativa, continuano nel tempo e diventano sistematici. Per far fronte a questi pesi insopportabili dalle PMI, da poco più di tre anni si è avviato un contesto borsistico esclusivo costituito dall'accorpamento di due mercati già esistenti presso Borsa Italiana: l'AIM (Alternative Investment Market), ovvero il listino nazionale mutuato dall'analogo modello inglese destinato alle Medium & Small Caps, e il MAC (Mercato Alternativo del Capitale).

Il processo di quotazione nell'ambito di questo nuovo mercato è in effetti semplice, flessibile, poco costoso e molto rapido: solo dieci giorni dalla presentazione della domanda di ammissione senza alcuna necessità di pubblicare prospetti informativi e resoconti trimestrali. Le aziende sono peraltro impegnate a nominare il cosiddetto Nomad (Nominated Advisor): un soggetto accreditato dalla Borsa Italiana tenuto ad assistere l'azienda per l'intera permanenza sul mercato al fine di tutelare gli investitori.

Sebbene la quotazione di qualche decina di società abbia dimostrato come il nuovo mercato sia tutto sommato ben calibrato sulla struttura delle PMI, gli scambi si sono sin dall'inizio dimostrati sporadici e sostenuti da volumi esigui. Superato l'entusiasmo iniziale, insomma, l'AIM-MAC langue, anche perché la crisi congiunturale e il regime di bassi tassi d'interesse che caratterizzano la fase storica che stiamo vivendo scoraggiano la ricerca di capitali di rischio a basso costo da investire in acquisizioni o nella realizzazione di obiettivi strategici di business.

Al fine di rivitalizzare un mercato così "sottile", sono allo studio modalità volte a incentivare le quotazioni: le proposte riguardano sia le imprese, sia gli investitori. Per le prime ci si sta orientando verso crediti d'imposta da spalmare in più anni per recuperare parte dei costi di ammissione. A sostegno degli operatori, invece, si va dalla detassazione del capital gain per chi detiene le azioni delle PMI per un periodo minimo fino all'alleggerimento fiscale dei dividendi. Se l'alibi dei costi e della complessità è dunque in via di smantellamento, resta il nodo principale: quello culturale.

Le vere ragioni del mancato decollo del mercato azionario italiano destinato alle PMI affondano le loro radici, infatti, nella nostra tradizione imprenditoriale: a differenza di altri Paesi europei, la dimensione media delle nostre PMI è decisamente più contenuta e di struttura proprietaria essenzialmente familiare. E' il caso tipico, per esempio, di gran parte delle medie aziende siderurgiche.

In tali contesti, nei quali l'azienda è percepita più come bene "familiare" che come bene "sociale", si tende ad assicurare la continuità aziendale in seno alla famiglia, anche a costo di dover sopportare conflitti tra soci o difficili convivenze inter/infragenerazionali. Grazie alla quotazione all'AIM-MAC si potrebbe invece agevolare la liquidabilità di pacchetti azionari al fine di valorizzare il patrimonio dopo il reinvestimento sistematico degli utili nell'azienda di famiglia, soprattutto nei casi in cui l'imprenditore non intravveda la continuità aziendale ben presidiata dalle nuove generazioni. Così come potrebbero essere facilitati gli smobilizzi di pacchetti azionari da parte di soci desiderosi di uscire dalla compagine, senza che ciò comporti eccessivi impegni finanziari per gli altri azionisti o per la società stessa. E ancora: la quotazione diffusa da parte di PMI appartenenti alla medesima filiera industriale potrebbe favorire le tanto invocate aggregazioni oppure il consolidamento di reti d'impresa già costituite. Tutte questioni che possono peraltro essere risolte senza ricorrere alla quotazione borsistica: magari in modo sub-ottimale, ma preferibile dai molti imprenditori che non gradiscono condividere strategie e gestione aziendale oppure dare eccessiva pubblicità a delicati risvolti familiari e societari.

Ma forse, in definitiva, il principale motivo per cui chi guida le nostre migliori PMI non è per nulla attratto dalla quotazione in borsa è perché, semplicemente, non ne ha alcun bisogno: né di raccogliere capitali, né di ristrutturarsi finanziariamente. Con il rischio, oltretutto, di compromettere l'immagine aziendale: com'è già capitato in parecchi casi proprio all'AIM-MAC, la valutazione eccessiva del titolo in fase di ammissione ha innescato performance negative del tutto controproducenti per l'affermazione di una vetrina realmente di prestigio.

 


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