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Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio

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Una lettera d’amore. Una difesa da accuse infamanti. Un ritratto vivido del carattere dell’uomo. Una testimonianza di un rapporto bello, a volte difficile, ricco di contrasti, tra due persone molto diverse tra loro. Questo è «Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio», libro scritto da Giovanna du Lac Capet, compagna per 42 anni del magnate siderurgico, edito da Mondadori e con la prefazione scritta da Vittorio Feltri.
Il libro, nato per volontà dell’autrice per «dar voce al silenzio di Emilio Riva», ripercorre la vita ed il rapporto tra Riva e l’autrice, nato nei primi anni ’70. Un rapporto di quelli che, sulla carta, sembrerebbero impossibili. Cosa può unire una 24enne di origini aristocratiche, inserita nel bel mondo internazionale, poliglotta e ricca di savoir-faire ad un 46enne lombardo, imprenditore, self-made-man per eccellenza, dedito anima e corpo al lavoro? Apparentemente nulla. Eppure 42 anni di convivenza e due figli sono gli innegabili fatti che smentiscono questo pregiudizio. E proprio per smontare molti pregiudizi associati alla figura di Riva che Giovanna du Lac Capet ha scritto questo libro. Dalla penna dell’autrice emerge nettamente il carattere e la figura di Riva, un uomo silenzioso («Le parole non servono, Giovanna. Le parole non servono mai a niente. Servono i fatti, solo i fatti sono ciò che alla fine resta»), che era «il riassunto umano della concretezza», che voleva non sentirsi mai in debito con nessuno («preferisco dire “prego” piuttosto che “grazie”»), per il quale «gli affari erano il senso e lo scopo della sua vita. I sentimenti venivano dopo», che «non sapeva fermarsi» e che «continuava a procurarsi da solo nuove sfide». Il libro è ricco di aneddoti che spiegano, meglio di qualsiasi descrizione, l’uomo Riva. Una persona che aveva una capacità innata di organizzare tutto, dalle fabbriche, alle cene, alla vita dei collaboratori (come quando si recò in Africa al capezzale di Teberi, la domestica eritrea che aveva per anni lavorato nella sua villa, che era stata colpita da ictus e per la quale comprò una casa e organizzò la sua assistenza). Per il quale il lavoro era una missione (in famiglia era nota la frase di Riva, a cui nessuno credette mai, «a 75 anni smetto di lavorare», frase che poi fu naturalmente smentita dai fatti) e per cui lo spreco era un peccato mortale (gli aneddoti su questo tema si sprecano nel libro). Un uomo che amava profondamente cucinare, giocare a carte e che aveva risorse e spunti geniali ed inaspettati. Come quando, a metà degli anni ’70, fu incarcerato con l’accusa di omicidio a seguito di un incidente mortale accorso nella fabbrica di Caronno Pertusella (VA) e che, in cella, prima giocò e vinse 300.000 lire a poker contro alcuni altri carcerati e poi organizzò e cucinò il pranzo di Pasqua per i compagni di cella.
La parte conclusiva del libro è invece dedicata alla difesa di Emilio Riva nei confronti delle accuse che gli sono state mosse dalla Procura di Taranto. Accuse, secondo l’autrice, non basate su risultanze scientifiche e che hanno portato i media a dipingere Emilio come un mostro. Un pregiudizio facilitato anche dalla ritrosia di Riva a comunicare.
Il riassunto di Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio si può trovare nelle ultime righe del libro. «In fondo, tacendo e restando inerme [Riva] ha reso la vita comoda a chiunque volesse sputargli addosso il proprio livore. Questo libro vuole solo essere la piccola testimonianza che Emilio Riva è esistito. Queste pagine per la prima volta intendono dargli una voce. Prima che le condanne della piazza lo ammazzino definitivamente, questo libro vuole solo concedere a Emilio Riva il diritto umano di urlare la propria innocenza e il proprio dolore di fronte ad ognuna delle morti tarantine. Vi chiedo di giudicare un uomo e un imprenditore, non l’Emilio Riva su cui hanno già impresso il marchio dell’assassino». 


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